L’emergenza jihadista che dilaga dal Sahara. E poi la povertà, aggravata dalla pandemia, che provocherà nuove migrazioni. Ma ci sono anche imprese innovative, spesso legate alla tecnologia, che si fanno faticosamente strada. Ritratto dell’Africa 60 anni dopo la decolonizzazione.
Per contrastare l’offensiva jihadista fra Sahara ed Equatore, i francesi hanno chiesto aiuto militare all’Europa e anche all’Italia. «L’obiettivo jihadista in Africa occidentale è di espandersi arrivando dal deserto al mare via Costa d’Avorio e Benin» dice a Panorama il vescovo Laurent Birfuoré Dabiré, presidente della Conferenza episcopale del Niger e Burkina Faso. «La missione internazionale Takuba sarà di grande aiuto perché la potenza di fuoco dei terroristi è massiccia e nessun Paese dell’area può farcela da solo».
I militari italiani verranno impiegati sul «fronte» più caldo. «Il nostro confine meridionale è il Sahel, un vero limes. A seguito della crisi libica, ma non solo, appare evidente che la regione ha un’altissima valenza strategica» sostiene la deputata 5 Stelle Emanuela Del Re, che ha compiuto 15 visite in tre anni in Africa come viceministro degli Esteri del governo Conte. L’Italia dispiegherà nella missione Takuba, comandata dai francesi, 250 militari, 20 mezzi terrestri e otto velivoli per un costo annuo di 16 milioni di euro. Gli elicotteri saranno sei (tre Ch 47 nuova versione e altrettanti Mangusta d’attacco di scorta) per le pericolose missioni di evacuazione medica in zona di combattimento fra i corpi speciali francesi e i terroristi.
La base si trova a Menaka, sperduto villaggio in mezzo al deserto nel triangolo dei confini fra Mali, Niger e Burkina Faso. Il 15 aprile è stata attaccata a colpi di mortaio, ma la missione italiana diventerà veramente operativa dopo la stagione delle piogge, verso settembre, con i primi quattro elicotteri. Le difficoltà logistiche sono enormi: la base è a 300 chilometri dalla città più vicina, Gao, da dove arriveranno i rifornimenti di carburante. Il porto più prossimo, per sbarcare il grosso dei mezzi e materiali, si trova nel Benin a 1.300 chilometri.
«Les affreux», i soldati di ventura ai tempi della decolonizzazione non esistono più, ma i nuovi «mercenari» sono i contractor, professionisti delle società di sicurezza, tornati in auge in Africa. «I mercenari storici nel continente sono i sudafricani, che non a caso appoggiano i russi della Wagner. Gli italiani sono pochi e operano soprattutto nell’area del Golfo di Guinea, a cominciare dalla Nigeria, per la sicurezza delle compagnie petrolifere. Qualcuno è presente in Sudan. Un contractor europeo con esperienza costa 4.000 dollari al mese, ma un africano lo paghi appena 150» spiega Gabriele Petrone, veterano italiano che vive in Tanzania.
Quarant’anni di esperienza alle spalle dall’Afghanistan, alla Colombia fino all’Iraq, ne ha passati 15 in servizio in Africa. In Congo ha scortato il genero del presidente e anche i familiari di Laurent Désiré Kabila, che guidava il gigante nel cuore del continente durante la «guerra mondiale africana». Secondo il Dipartimento di Stato americano, sarebbero circa 10.000 i contractor delle società internazionali in Africa, in gran parte impiegati per la sicurezza delle imprese straniere.
Il comando Africom, responsabile di tutte le operazioni militari statunitensi nel continente, impiega 21 società private per servizi che vanno dal Medevac a informazioni di intelligence, pilotaggio di droni e personale aggregato alle operazioni anti terrorismo.
L’ultima fase della guerra in Libia ha visto il boom dei mercenari, compresa la «carne da cannone», come vengono con sprezzo chiamati gli almeno 3.800 siriani importati dall’intelligence turca per salvare Tripoli dall’assedio di Khalifa Haftar.
Il generale della Cirenaica si appoggia ai contractor russi, che sarebbero aumentati da 300 a 1.200 negli ultimi due anni. Tutti forniti da Wagner, la società di Yevgeny Prigozhin, soprannominato il «cuoco» di Vladimir Putin per la sua familiarità con il capo del Cremlino. I russi hanno combattuto anche contro l’Isis in Mozambico subendo pesanti perdite e sono presenti come guardie del corpo e consulenti della sicurezza del presidente Faustin-Archange Touadéra, nella Repubblica Centrafricana.
Nel 2018 circa 200 contractor sudafricani, britannici, indiani, georgiani e ucraini della Sttep international di Eeben Barlow hanno quasi sconfitto i miliziani jihadisti di Boko Haram in Nigeria. In Ruanda sono arrivate le società di sicurezza tedesche, ma in Africa non mancano i contractor cinesi per garantire protezione agli ingenti investimenti del governo e delle società di Pechino, soprattutto per la derivazione sul continente della Nuova via della seta.
A parte il servizio anti pirateria al largo della Somalia, la DeWe Security services protegge la linea ferroviaria Nairobi-Mombasa e l’impianto di liquefazione cinese del gas naturale in Etiopia, un investimento di 4 miliardi di dollari. I contractor cinesi sarebbero presenti anche nella Repubblica Centroafricana e in Sud Sudan.
Sessant’anni dopo l’indipendenza, la popolazione africana conta 1,2 miliardi di persone, ma nel 2050 è previsto il raddoppio a 2,3 miliardi. Il continente assorbirà il 57% della crescita demografica globale e il 23% della popolazione mondiale sarà sub-sahariana. Al contrario, la quota della «vecchia» Unione europea – oggi del 6 per cento – calerà in 30 anni al 4%.
Secondo un modello di previsione dell’Università di Denver, il boom demografico provocherà già dal 2035 un aumento di 80 milioni di poveri in Africa. In parallelo, la migliore istruzione, l’accesso a internet, la lotta per i diritti umani e le istanze democratiche favoriranno disordini e instabilità. «E il cambiamento climatico farà da volano a povertà e migrazioni. Il fenomeno va affrontato seriamente anche nel nostro interesse» sottolinea padre Giulio Albanese.
L’inquinamento del lago Vittoria – il più importante del continente -, il prosciugamento del lago Ciad, la deforestazione selvaggia e l’acquisizione spregiudicata di terreni da parte della Cina e di nazioni meno potenti ma senza remore, come gli Emirati arabi (2 milioni di ettari in Africa e Asia) sono altri fattori che favoriranno squilibrio climatico e migrazioni.
Nel 2011, Mu’ammar Gheddafi nell’ultima intervista che ha concesso a chi scrive, prima della sua morte, aveva previsto che se le bombe della Nato avessero fatto crollare il regime un milione di africani sarebbero arrivati in Europa. Il colonnello ci è andato vicino. In 10 anni sono sbarcati in Italia 811.113 migranti, non solo africani, ma provenienti in gran parte da Libia o Tunisia. Nel 2017, periodo del boom degli arrivi, una ragazzina del Gambia intercettata su un gommone dalla Guardia costiera libica e riportata a Tripoli continuava a ripetere: «Gli amici e i trafficanti mi hanno garantito che in Italia mi daranno una casa, vestiti, da mangiare e un lavoro».
L’illusione di un Eldorado europeo, che non esiste, attirerà ancora di più i futuri poveri africani provocati dall’aumento demografico.
«Finora abbiamo vissuto solo un assaggio. L’Africa non è nelle condizioni di assorbire il gigantesco aumento di popolazione previsto» è convinto l’ex sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica. «Ovvio che continueranno ad andarsene. Ci sono più medici del Lesotho a Londra che in Lesotho, il piccolo Stato al confine col Sudafrica. Sono uno di quelli che dice aiutiamoli a casa loro. E lo dovrebbe fare seriamente anche l’Unione europea».
La deputata 5 Stelle Emanuela Del Re azzarda un altro scenario: «L’Africa è un continente giovane, in cui l’età media è circa 20 anni o poco meno. Questo grande patrimonio di persone è orientato verso i valori europei, il che costituisce un asset fondamentale per la costruzione anche del nostro futuro che, secondo me, sarà afro-europeo o euro-africano che dir si voglia. Dobbiamo cominciare a parlare afro-italiano, perché le straordinarie diaspore sul nostro territorio avranno sempre più rilevanza in futuro».
L’economia africana è cresciuta, soprattutto dagli anni Novanta, con punte dell’8% nel 2020 per il Ruanda e il Sud Sudan. La stessa media annua del poco conosciuto Botswana, primo classificato al mondo dal 1960 a oggi in termini di crescita. Il reddito pro capite è pure aumentato, ma se ai tempi dell’indipendenza era un terzo rispetto a quello globale (131 dollari contro 453), 60 anni dopo, è un settimo (1.586 contro 11.313). I Paesi «ricchi» come la Guinea Equatoriale arrivano a 38.700 dollari di reddito pro capite, superando persino la Corea del Sud. Egitto, Sudafrica, Libia, Algeria, Botswana e Gabon vanno dai 12.000 ai 19.000. Ovviamente la ricchezza è quasi sempre mal distribuita. Mauritius e Seychelles superano i 20.000 dollari, ma il calo dei turisti dovuto alla pandemia inciderà pesantemente.
I Paesi più poveri sono Somalia, Repubblica Centrafricana, Congo, Burundi e Liberia, tutti sotto i 1.000 dollari. E l’effetto Covid sull’economia è preoccupante. «Il Prodotto interno lordo africano è cresciuto, anche se la cifra assoluta rimane sempre molto bassa, attorno ai tre trilioni di dollari» osserva padre Albanese. «All’inizio della pandemia le agenzie di rating internazionali hanno declassato le dieci migliori economie africane dalla Nigeria al Sudafrica, innescando le prima recessione da un decennio a questa parte. Una mossa di pura speculazione».
Secondo il Fondo monetario internazionale, l’economia africana crollerà causa Covid del 3,2%, con una perdita di 243 miliardi di dollari. E la stima sul reddito pro capite è di una flessione del 5,4 per cento. Quindi dai 26 ai 58 milioni di africani rischiano di finire a breve nella fascia di povertà estrema (1,90 dollari al giorno) aggiungendosi ai 278 milioni già esistenti, con dirette conseguenze su stabilità e migrazioni. Mantica è però convinto che l’Africa ce la farà nonostante «l’incidenza del Covid per riflesso globale» in termini di minori aiuti e investimenti da parte della comunità internazionale piegata dalla pandemia. «L’economia africana è al 90% informale» afferma l’ex senatore vicepresidente della organizzazione no profit Avsi. «Per questo sopravviverà, altrimenti sarebbe una tragedia epocale».
Un altro campanello d’allarme è la riduzione delle fondamentali rimesse della diaspora africana emigrata in Europa, Stati Uniti e altri Paesi. Nel 2019 ammontavano a 46 miliardi di dollari e si prevedeva un ulteriore aumento a 65 miliardi, ma le stime adesso indicano una flessione che potrebbe arrivare al 14% nel 2021. Se l’effetto Covid è la novità, il bubbone di sempre resta la corruzione. Mantica non ha dubbi: «Il cancro peggiore del continente è la corruzione, arrivata a livelli inimmaginabili». E padre Albanese aggiunge che «l’Africa oggi continua a essere terra di conquista. I responsabili sono pure le élite politiche nazionali, non solo gli appetiti stranieri». Ogni anno si calcola che il drenaggio illecito delle ricchezze africane equivalga a 200 miliardi di dollari, 12 trilioni dall’indipendenza.
Si apre uno spiraglio di luce con il tanto atteso accordo di libero scambio entrato in vigore dal 2021. «Senza dubbio negli ultimi due decenni l’Africa ha conosciuto una crescita economica robusta, accompagnata da progressi socio-politici importanti» sottolinea la deputata Del Re. «Integrazione regionale, nascita di un’area di libero scambio continentale (AfCFTA) e adozione della nuova moneta Eco sono tutti importanti segnali di dinamicità, intraprendenza e vivacità in molti Stati».
Alcuni settori stanno attirando l’attenzione delle grandi società internazionali dei pagamenti digitali e commercio online, ancora limitato in Africa ma in forte sviluppo. Beyonic è una fintech fondata dall’informatico ugandese Luke Kyohere, che ha creato una rete di pagamenti digitali avanzata per piccole e medie imprese in Ghana, Uganda, Tanzania, Kenya, Ruanda. Sul progetto hanno messo gli occhi i sudafricani di Mfs, il colosso dei sistemi di pagamento nel continente. La start-up nigeriana Paystack con 60.000 clienti è stata acquisita dalla multinazionale californiana Stripe per 200 milioni di dollari.
Anche l’industria del cinema africano comincia ad avere un peso economico e non solo culturale rispetto ai colossi di Los Angeles e al Bollywood indiano. Il cinema nigeriano chiamato Nollywood ha una produzione numericamente superiore rispetto agli americani. Se n’è accorta per prima Netflix, sbarcata nel continente con serie e film che seguono lo slogan «creato dagli africani e visto dal mondo». Le giovani generazioni armate di smartphone e costantemente connesse, dai deserti alla savana, sono un rilevante bacino di utenza. Non a caso, nel 2019 l’Africa sub-sahariana veniva considerata il mercato televisivo in crescita più rapida a livello globale.
(Fine della seconda puntata)