Non è più la terra promessa
Da luogo privilegiato per europei e italiani, oggi l’Australia sta cambiando volto, con stipendi fermi, un costo della vita schizzato in alto, eccessiva burocrazia e l’arrivo di «migranti temporanei», che spesso finiscono nella manovalanza della criminalità.
Io e mio marito siamo venuti a cercare lavoro qui in Italia, perché il nostro Paese non è più terra di opportunità. Al punto che quasi non riesco a riconoscerlo». È la paradossale testimonianza di Yulia e Robert S., entrambi classe 1984, nati e cresciuti nella Sydney che siamo abituati a pensare vivace e traboccante di opportunità professionali. Come nel Primo e nel Secondo dopoguerra, quando centinaia di migliaia di italiani ed europei la scelsero come destinazione privilegiata per costruirsi un futuro migliore. Al punto che la comunità italo-australiana rappresenta oggi il quarto gruppo etnico del Paese, con 850 mila persone stabilitesi qui da almeno due generazioni. Mentre la lingua italiana è stata per decenni la seconda più parlata dopo l’inglese, ed era comune che fosse insegnata come materia facoltativa nelle scuole. Oggi, però, il panorama si trasforma rapidamente, con l’immigrazione che ha volti ed etnie completamente diverse (soprattutto cinesi) e con numerosissimi giovani che scappano dalle terre rosse e selvagge che hanno costruito nei decenni il mito di un eldorado incontaminato e accogliente.
Il censimento australiano del 2011 certificava che appena il 2 per cento della popolazione era da considerarsi indigeno ma, se unito al 90 per cento di discendenza europea, dava come risultato un 8 per cento scarso di origine asiatica o proveniente da Stati più lontani. Oggi, invece, quel numero è almeno a doppia cifra e incide in maniera disarmonica con i progetti di ripopolamento del Paese-continente.
Perché tutto questo? «Non so dire se sia colpa del governo, ma posso testimoniare che gli stipendi sono fermi da troppo tempo, mentre il costo della vita è schizzato alle stelle. Specie a Sydney e nelle grandi città costiere», aggiungono i nostri interlocutori. È qui che si concentra la stragrande maggioranza della popolazione appena 25 milioni di abitanti per il sesto Paese più esteso al mondo.
«Veniamo pagati sempre meno per lavori che un tempo fruttavano più del doppio, mentre gli affitti sono schizzati a minimo 500 dollari alla settimana, e neanche i ranch ormai sono da considerarsi alloggi economici. Per cui i giovani, che un tempo uscivano da casa a sedici anni, oggi sono costretti a rimanere a lungo in famiglia, un po’ come da voi. Ma non sono “bamboccioni”, semplicemente non riescono a pagare affitti così alti e a far fronte ai prezzi esosi finanche del supermercato; perché il lavoro, anche quando c’è, è mal pagato. Così molti sono obbligati a lavorare anche nel weekend, un fenomeno sconosciuto da queste parti, almeno fino al secolo scorso».
I sindacati chiedono non a caso che la soglia minima sia portata oltre i 90 mila dollari australiani (circa 54 mila euro l’anno), mentre i datori di lavoro vorrebbero che l’aumento della soglia fosse limitato a 60 mila dollari (36 mila euro). Il che crea tensioni e distorsioni importanti nel settore. Se infatti un tempo la paga media settimanale era 1.500 dollari e oggi è scesa a 500 si capisce subito che qualcosa non funziona più.
Robert segnala «un uso irresponsabile e del tutto arbitrario tanto sui prezzi dei beni di consumo quanto sulle paghe», specialmente per i lavori non qualificati. È noto che le imprese australiane abbiano gran bisogno di impiegati qualificati, ma da un lato «i residenti non riescono a entrare nel mondo del lavoro per fare esperienza all’interno di un’azienda», dall’altro i migranti specializzati - di cui il governo di Canberra ha grande bisogno - faticano a entrare nel Paese «a causa di un sistema di visti intasato e vecchio. La situazione è diventata particolarmente grave dalla pandemia», con un arretrato di domande significativo e un numero crescente di aziende che ha dislocato i propri impianti altrove: Cina, Vietnam, Singapore e Sudest asiatico.
«Ci sono troppe leggi e una burocrazia asfissiante. Lo si vede anche solo dal sistema assistenziale, non più all’altezza della sua fama. Il nostro Medicare, concettualmente simile alla tessera sanitaria, un tempo garantiva la gratuità per la maggior parte delle prestazioni degli australiani residenti. Oggi invece c’è troppa pressione sugli ospedali perché mancano figure professionali come medici e infermieri; e di conseguenza i servizi di base vengono progressivamente tagliati mentre le strutture sanitarie non accettano più l’assistenza gratuita. Se ci aggiungi che il governo preferisce investire nella difesa che nella sanità, ti spieghi perché siamo ridotti in queste condizioni».
I lavoratori qualificati e le scarse opportunità - il 2022 ha segnato il record negativo di sempre, con 71.300 posti di lavoro vacanti - sono evidenti per medici, infermieri, insegnanti e lavoratori nel settore «information technology». Gli australiani, ma soprattutto le aziende che cercano manodopera, sono in attesa della revisione del sistema dei visti, considerato troppo complesso (con centinaia di sottocategorie e regolamenti).
Un problema che si aggiunge alla già lunga lista sul tavolo del premier di origini italiane Anthony Albanese: a un anno dalla sua elezione per la sinistra australiana, infatti, l’inflazione ancora galoppa inficiando le performance del dollaro australiano, mentre il tasso di disoccupazione (al 3,7 per cento) sale sia pur di poco. Per questo Albanese oggi cerca sponde con Vietnam e India, nella speranza di ottenere accordi e scambi economici entro il triennio di scadenza del suo mandato, che risollevino i dati asfittici su Pil e occupazione.
Inoltre, il tasso di natalità continua a diminuire, dopo che nel 2021 ha registrato il primo vero declino dal 1916, interrompendo una crescita ultracentenaria. È soprattutto l’Australia rurale a scomparire lentamente, anche a causa di assenza di investimenti nelle case, mancanza di alloggi e costruzioni, e di infrastrutture, che hanno generato un isolamento sempre più difficile da accettare soprattutto da parte dei più giovani, con il dollaro australiano schiacciato dalla fuga degli investitori dagli asset più rischiosi.
Qui l’immigrazione selezionata era stata a lungo un motore chiave della crescita economica, ma già a partire dal governo di Malcom Fraser, negli anni Settanta, lo Stato ha iniziato a farsi più selettivo riguardo alle precise competenze che desiderava dai migranti, introducendo un «test dei punti». Cosicché oggi i potenziali lavoratori qualificati fanno domanda per entrare in Australia soltanto attraverso programmi di visto temporaneo, cioè come turisti senza diritti di occupazione o come turisti lavoratori. Mentre lo «specializzato», sponsorizzato da un datore di lavoro, è sempre più un miraggio.
C’è anche un limite al numero di visti per migranti qualificati permanenti offerti ogni anno. In precedenza era limitato a 160 mila posti, ma oggi il governo australiano lo ha portato a 195 mila. Ancora insufficiente dal momento che, nel frattempo, non c’è limite alla cifra di visti temporanei approvati dall’Australia e così il numero di migranti temporanei con diritti di lavoro è esploso negli ultimi 15 anni, raddoppiando da un milione a 1,9 milioni. Secondo l’ex vicesegretario del dipartimento per l’Immigrazione Abul Rizvi «circa il 60-70 per cento dei migranti permanenti proviene da persone che hanno già un visto temporaneo».
Tale incremento si traduce con distorsioni del sistema che portano molti a cercare fortuna altrove, Come nel caso di Yulia e Robert S. Altri, invece, finiscono per diventare manovalanza della malavita. A certificarlo è la polizia federale australiana, che recentemente ha dichiarato: «Abbiamo circa 51 clan della criminalità organizzata in Australia. E abbiamo identificato 14 clan di ’ndrangheta confermati in tutto il Paese, che coinvolgono migliaia di membri e sono tra le organizzazioni più potenti». C’è persino chi finisce nelle braccia del radicalismo islamico, fenomeno che preoccupa molto in proporzione alla popolazione residente.
Più di 150 australiani si sono uniti a gruppi jihadisti stranieri negli ultimi otto anni e sono almeno 255 quelli andati a combattere in Siria e Iraq per lo Stato islamico: il timore del governo è che i radicalizzati all’estero torneranno a svolgere attività di terrorismo interno.
A completare il quadro negativo c’è il fenomeno del cambiamento climatico, che nel continente impatta più severamente che altrove: siccità, incendi diffusi, inondazioni record e un progressivo sbiancamento di massa sulla Grande barriera corallina, minano il futuro del Paese dei canguri, che adesso sembra aver smarrito il fascino della propria identità.