Quel coltello che taglia la passione di vivere
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Inchieste

Quel coltello che taglia la passione di vivere

Dà sicurezza, ti fa sentire forte e soprattutto regala un’identità. Così i ragazzi che portano con sé una «lama» spiegano questo fascino. Un modo diverso di stare nel mondo non pare sia previsto.


Fa impressione leggere l’intervista di Luca Villa, Procuratore capo presso il Tribunale per i Minorenni di Milano. Parla della violenza tra i ragazzi che si consuma a Milano ma che, aggiungiamo noi, potrebbe essere analizzata anche in molte altre città. Se, infatti, il numero dei «reati predatori» è stabile (ci riferiamo a quelli denunciati perché, come è noto, molte persone non denunciano più i reati che subiscono), si diffonde la violenza e la minaccia con il coltello. Sembra che l’ultimo e unico alfabeto rimasto sia quello della sopraffazione. Questi ragazzi mostrano rabbia e frustrazione che non riescono a gestire e diventano, appunto, voglia di sopraffazione.

Nelle mie trasmissioni televisive ci siamo occupati molte volte di questo fenomeno del quale parla il dottor Luca Villa. Ho verificato da vicino i numeri che il Procuratore ci dà: «Deve fare riflettere invece l’aumento della violenza, in particolare delle rapine con l’utilizzo di un’arma, quasi sempre un coltello (80 episodi), degli omicidi e dei tentati omicidi che nel giro di tre anni sono passati da 5, a 8, ai 24 dell’ultimo anno… in tanti casi sono ragazzi con genitori integrati, spesso italiani… è difficile persino formulare l’idea di un movente tecnicamente valido dal punto di vista giudiziario… la violenza negli stadi si può ricondurre al tifo che diventa patologia, quella delle gang di latinos si rifaceva a codici che animavano certi contesti. Qui invece restiamo disorientati di fronte alla leggerezza con cui le armi vengono utilizzate, quasi che la vita, agli occhi dei ragazzi, avesse poco valore.

Ritrovo in queste parole quanto ho verificato in alcune inchieste che abbiamo condotto nelle trasmissioni che conduco. Il fatto di portare un coltello addosso è considerato un fatto normale, come una volta si portava il fazzoletto di stoffa al posto dei kleenex. Il coltellino poi è addirittura letteralmente elevato a livello di un mito da queste generazioni. Non è considerato come qualcosa da nascondere perché proibito, semmai, da esibire nei contesti che frequentano come qualcosa che va a definire lo status sociale dei ragazzi. In altri termini è un simbolo che li rende più forti nella loro identità all’interno del gruppo e, ancora prima, li caratterizza come «degni» di frequentare quegli ambienti.

Purtroppo, è un po’ come la pistola in certi ambienti della malavita, là c’è il cosiddetto «ferro», qui di ferro c’è la lama. Ma la questione non cambia dal punto di vista della psicologia che sottostà a questa scelta e che attiene alla psicologia dei gruppi, potremmo dire «delle tribù», che si sentono a loro agio se seguono alcuni riti e alcuni miti.
Ho chiesto frequentemente a questi giovani perché portassero il coltello addosso e mi hanno sempre, invariabilmente, risposto che lo portano perché è uno strumento di difesa necessario per gli ambienti che frequentano. Se vuoi stare tranquillo in quelle situazioni devi portare il coltello, altrimenti rischi. Successivamente ho chiesto perché ritenessero necessario frequentare ambienti dove serve portare un coltello per assicurare la propria incolumità. In questo caso le risposte sono state molto più evasive. In altri termini mi hanno poco convinto perché mi hanno detto che in quei luoghi, comunque, il pericolo c’è e quindi bisogna autotutelarsi. Cioè non mi hanno risposto o, meglio, mi hanno fatto intendere che loro in quegli ambienti vogliono andarci perché a loro piacciono, ma che quei posti che a loro piacciono sono pericolosi (e forse li affascinano proprio per quello) e quindi bisogna portare il coltello, o il mitico coltellino, per difendersi.

Il Procuratore sostiene che sono necessarie alcune attività di prevenzione. «Ridurre la dispersione scolastica, sostenere le attività sportive di squadra perché siano accessibili a tutti e restituire ai ragazzi il gusto di una sana socialità, la grinta di misurarsi in vari contesti non necessariamente “strutturati” dagli adulti, la creatività in ogni sua forma. In una parola, la passione di vivere». La passione di vivere. Il Procuratore usa un’espressione che richiama il senso della vita, che richiama valori e principi che riguardano l’anima di ognuno e anche la sua mente, la sua psiche. Il Procuratore indica una strada che non è veloce, che non è immediata, che non può portare frutto nei giorni o nelle settimane, ma nei mesi e negli anni. Guardando dietro la vita di questi ragazzi viene da chiedersi chi deve fornire tutto questo? E qui prende un po’ lo scoraggiamento.

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Paolo Del Debbio