Il settore in Italia, nonostante il lockdown, cresce ed è al centro degli appetiti di gruppi internazionali. Si legge così l’ingresso di un fondo in Illy e l’acquisizione di Vergnano da parte di Coca-Cola. Ma l’instabilità politica in Venezuela e il caldo eccessivo in Brasile rischiano di far lievitare il prezzo dell’amata tazzina.
Le cronache storiche riportano che Voltaire ne bevesse addirittura 40 tazzine al giorno e che il filosofo Kierkegaard ci mettesse circa 30 zollette di zucchero. Beethoven invece pare lo preparasse usando esattamente 60 chicchi mentre Bach gli ha dedicato una Cantata con la quale criticava la cultura del tempo, che considerava la bevanda come simbolo del vizio.
Il caffè da sempre è un rito che accompagna la giornata. «Più lo mandi giù e più ti tira su» è lo slogan, diventato famoso, di una nota pubblicità. Si riferisce alla sferzata al torpore mattutino o dopo i pasti ma, guardando ai numeri, anche al business di un mercato in ascesa. Le cifre sono da capogiro. Ogni giorno, nel mondo, si bevono 3 miliardi di tazzine. Il caffè, come gli spaghetti, è il simbolo della cultura gastronomica italiana. Ne consumiamo in media circa 4,7 chili pro capite l’anno.
Tant’è che siamo il terzo importatore, a livello mondiale, di caffè verde, dopo Stati Uniti e Germania, in prevalenza dai primi tre grandi produttori, Brasile, Vietnam e Colombia. Il nostro Paese è al quarto posto per esportazione del torrefatto, diretto soprattutto in Europa e negli Usa anche se, dal 2013, si è consolidato lo sbocco verso gli Emirati Arabi e la Cina. La filiera dell’espresso vale circa 5 miliardi di euro con quasi 10 mila addetti e si contano oltre 800 torrefazioni con 7 mila dipendenti.
L‘indotto, a partire dalle attrezzature professionali (le macchine, i macinadosatori e i prodotti correlati), pone l’Italia al primo posto nel mondo con un valore produttivo di circa 500 milioni di euro. L’ultimo studio di Confida, l’Associazione della distribuzione automatica, dice che c’è un distributore automatico ogni 73 abitanti contro una media Ue di uno ogni 190. Ci sono oltre 822 mila macchine, in uffici e luoghi pubblici, e il caffè rappresenta l’86 per cento dei volumi delle bevande calde. Una stima di Statista consumer market outlook ha indicato per il 2020 ricavi nel segmento caffè di oltre 320 miliardi di euro e di qui al 2025 si prospetta una crescita annua aggregata del mercato pari al 10,6 per cento.
La passione per il caffè non è solo italiana. Apprendiamo che nel consumo siamo battuti dagli olandesi con 8,3 chili e dai finlandesi, norvegesi e svedesi. Questo diffuso apprezzamento ha messo in moto gli appetiti di grandi gruppi industriali che stanno facendo a gara per espandersi nel settore con acquisizioni di quote dei marchi italiani più famosi o partnership. Non si tratta della solita «rapina» ai danni del made in Italy, ma di un rafforzamento delle potenzialità di espansione di campioni storici che cercano maggiori opportunità di business.
L’ultima operazione, in ordine di tempo, è un’unione molto particolare tra due aziende che apparentemente non hanno niente in comune. Stiamo parlando dell’accordo tra il Caffè Vergnano, brand piemontese con una tradizione di oltre 135 anni alle spalle, e Coca-Cola HBC, società del colosso americano. Hanno business diversi ma condividono un obiettivo: conquistare quote importanti del ricco mercato del caffè. L’azienda piemontese cedendo il 30 per cento del capitale si è assicurata l’esclusiva della vendita all’estero tramite i canali di Coca-Cola HBC che serve oltre 600 milioni di consumatori in 28 Paesi. Per il Caffè Vergnano significa mettere una bandierina importante sullo scacchiere mondiale dove ha già una presenza significativa. Esporta in 90 Paesi e ha 160 caffetterie a marchio, in varie città del mondo. Per Coca-Cola, invece, è la porta d’ingresso nel ricco mercato della torrefazione italiana anche se la distribuzione rimarrà saldamente in mano alla famiglia Vergnano. «Ci siamo accorti che da soli non avremmo mai realizzato i nostri sogni di crescita internazionale. Quindi la cessione va a rafforzare un accordo distributivo» commenta l’a.d. Carolina Vergnano.
Anche il mercato delle capsule di caffè è in gran fermento. Il leader Nespresso, controllata dal colosso svizzero Nestlé, nel primo trimestre 2021 ha registrato ricavi in crescita del 17 per cento, numeri che hanno suonato la sveglia alle multinazionali, accendendo i riflettori su un mercato in sviluppo. A novembre 2020, in piena pandemia, Illy Caffè ha fatto spazio, con una quota di minoranza, al fondo americano di private equity Rhone Capital, molto forte nel business transatlantico.
Un accordo che consente di aggredire il mercato Usa, il maggiore al mondo per il caffè. Un anno prima, Italmobiliare, l’investment holding della famiglia Pesenti, è diventata il principale azionista, con il 60 per cento, di Caffè Borbone, uno dei maggiori produttori specializzati in capsule e cialde compatibili, che negli ultimi anni è cresciuto a un ritmo del 40 per cento l’anno. Non ha rallentato nemmeno durante la pandemia chiudendo il 2020, e ricavi in crescita del 27 per cento a 219,3 milioni di euro.
La buona performance pare abbia attirato altri appetiti. Un paio di mesi fa Milano Finanza ha lanciato l’indiscrezione di un possibile interesse da parte del colosso americano PepsiCo. Questi movimenti finanziari devono vedersela con la crisi delle materie prime che ha colpito anche il caffè. Il 2020 ha segnato un calo del fatturato delle torrefazioni italiane dell’8,6 per cento con un valore di perdita stimato di 337 milioni di euro, come rilevato dal Consorzio promozione caffè. Complice il lockdown che ha stravolto le abitudini del caffè al bar.
Ma ci sono anche altri fattori che incidono. Il caffè brasiliano, il Principe arabica, ha cominciato a scarseggiare sui mercati. Due le cause: l’instabilità politica della Colombia, numero tre dei produttori al mondo, alle prese con una crisi sociale e l’ondata di caldo che ha bruciato un terzo della produzione in Brasile, di fatto monopolista del caffè. Si è aggiunto il Covid che ha bloccato la manodopera stagionale. Risultato: la produzione è stata compromessa e i prezzi si sono impennati.
Di fronte a tali incertezze le partnership tra gruppi sono diventate una strada obbligata. Ma non per tutti. Tanti piccoli produttori stanno soffrendo per il post pandemia che ha imposto restrizioni a bar e ristoranti e per la concomitante crisi di produzione. Valgono le parole di Carolina Vergnano: «Piccolo è bello per chi ha scelto un posizionamento di nicchia e si confronta con una realtà territoriale circoscritta. Ma per chi ha ambizioni di crescita e deve fare i conti con la volatilità del mercato, la dimensione di mezzo non funziona. Il Covid ci ha colti, come tutti, impreparati. Ci ha insegnato a essere veloci e reattivi ai cambiamenti». Forse non è un caso che il mercato delle aggregazioni si sia riscaldato proprio durante il Covid.