Nelle Langhe è in corso una «guerra del Barolo» che oppone due approcci assai diversi al cambiamento climatico nella produzione vinicola. Intanto, uno studio approfondito indica gli effetti (positivi) sulla salute di un bicchiere al giorno.
Non c’è pace tra le vigne, né nelle stalle. La guerra che le multinazionali del cibo hanno scatenato – con appoggi istituzionali, dall’Organizzazione mondiale della sanità all’Unione europea – per eliminare l’incomodo di dover retribuire la fatica di coltivare comincia a mostrare i primi effetti. Sulle parole d’ordine imposte si sta sgretolando il nostro sistema di qualità: cambiamento climatico e dieta universale unica con l’ostracismo all’alcol mettono a rischio i nostri gioielli alimentari: dal Barolo alla Chianina. In questo panorama l’Italia archivia la vendemmia più problematica da 76 anni a questa parte: appena 38,3 milioni di ettolitri di vino con un crollo di 15 punti rispetto alla media dell’ultimo decennio. L’export non ha brillato. Vale 7,7 miliardi di euro, ma quest’anno abbiano chiuso con un meno 0,8 per cento in valore e meno 0,9 per cento in volumi. Abbiamo perso troppo sul nostro primo mercato, gli Usa: l’11,4 per cento in valore scendendo sotto i 2 miliardi di fatturato. Lo stesso in Canada, in Gran Bretagna, in Svizzera. Manca il consumo medio. Tra le ragioni, spiega Denis Pantini di Wine Monitor di Nomisma, la stretta monetaria, lo smaltimento dei magazzini, ma soprattutto i consumi salutistici. Quelli che Ursula von der Leyen-– presidente della Commissione europea – incoraggia consentendo all’Irlanda di apporre etichette terroristiche sul vino. La risposta del nostro sistema vino è il desiderio di correre verso i non vini: i dealcolati.
Li vuole l’Unione italiana vini con a capo Lamberto Frescobaldi che è uno dei maggiori produttori toscani. Ma forse, fatturando complessivamente 13,3 miliardi, il sistema vino è schiacciato da concorrenze influenti sull’Ue: la Red Bull, con le sue bevande energetiche, vende da sola per 14 miliardi. Egualmente si danno risposte semplici a problemi complessi in Langa dove è scoppiata la guerra del Barolo e del Barbaresco. E dove s’impone una scelta di vite. La faccenda in sé è semplice: le conseguenze esiziali. Il Consorzio di tutela delle due B, che sono anche i vini più famosi d’Italia insieme con i toscani, è presieduto da Matteo Ascheri che è anche a capo di una cantina storica del Barolo. Il presidente ha inviato a tutti i produttori una lettera invitandoli a pronunciarsi su questi tre punti del disciplinare da cambiare: impedire l’imbottigliamento fuori zona, ridurre i tempi di affinamento, ma soprattutto piantare le vigne sui versanti a Nord.
Mai nessuno, dalla metà dell’Ottocento, quando Giulia Colbert Falletti con l’appoggio di Camillo di Cavour trasformò il Nebbiolo amabile e rosato di Serralunga d’Alba, di Castiglione Falletto, di Barolo nel vino affascinante e austero che beviamo oggi, si è sognato di piantare una vigna se non sui bricchi che guardano a meridione. Per due ragioni: l’uva ha bisogno di sole, a nord devono starci i boschi che fanno da condizionatore naturale, che custodiscono e incrementano la biodiversità, che generano i tartufi. Ma Ascheri insiste: «Di fronte al clima che cambia non possiamo che adattarci, piantare a nord serve a preservare l’uva». La risposta delle cantine di maggior qualità è drastica. In 38 hanno firmato una lettera, ma sono un centinaio quelli pronti a sollevarsi, in cui respingono al mittente la proposta. Sostiene Marta Rinaldi, che con la sorella Carlotta porta avanti la famosissima cantina di famiglia: «Non è questo il modo per affrontare il cambiamento climatico. Non c’è un produttore di Barolo e Barbaresco disposto a giurare che sui versanti nord si possa fare qualità. Lo sanno le cantine storiche, ma lo sanno anche giovanissimi produttori come Giulia Negri, lo sanno le piccole aziende, lo sa Maria Teresa Mascarello o Ceretto che sono pilastri di questa denominazione, lo sanno i Marchesi di Gresy che il Barolo e il Barbaresco si fanno solo sui bricchi al sole. Non siamo disposti a rinunciare a un centimetro della qualità e non siamo neppure disposti a far devastare la nostra biodiversità: il bosco va salvaguardato».
Il no secco pone anche altri dubbi: «Noi facciamo in tutto 16 milioni di bottiglie, non dobbiamo produrre di più» precisa Marta Rinaldi. «C’è già chi sta svendendo Barolo. Il nostro sistema territoriale non può essere stravolto. Se c’è un problema col cambiamento climatico ci sono le soluzioni tecniche per affrontarlo. La via non è certo quella indicata dal Consorzio». Qualcuno ricorda la battaglia del Barolo degli anni Ottanta, quando i tradizionalisti si schierarono contro i modernisti. L’idea di questi ultimi era fare dei Barolo affinati in barrique, per meno tempo e di più pronta fruizione. I tradizionalisti erano per la botte grande, il lungo affinamento, la lenta ossidazione. Quello scontro portò a vini migliori, ma stavolta «è diverso» ripete Marta Rinaldi, che si preoccupa di dire che è solo una portavoce dei tanti oppositori dentro al consorzio. «Perché si vuole trovare una scorciatoia che peggiora il vino». Sottotraccia c’è chi dice che lo scopo è speculare sui terreni. Un ettaro a Barolo, a trovarlo, si paga tra 1,5 e 2 milioni di euro: ampliare a nord l’area del disciplinare per qualcuno sarebbe un ottimo affare, a prescindere dal vino.
Che deve guardarsi anche da altri «nemici». Quelli che fanno crollare i consumi sostenendo che il vino faccia male alla salute. Ma la difesa stavolta è scientificamente motivata. È affidata all’Irvas, istituto di ricerca che si occupa di studiare gli effetti sulla salute della dieta mediterranea, guidato dal professor Attilio Giacosa che è andato proprio a Bruxelles a dimostrare, studi alla mano, che il consumo moderato di vino fa bene. Spiega Giacosa: «L’Oms continua a dire che nessun livello di alcol è sicuro per la salute. È un’affermazione vecchia che si basa su uno studio pubblicato sulla rivista Lancet nel 2018 in cui si evidenziava la cosiddetta “J curve” che disegna la relazione tra consumo di alcol e insorgenza di malattie: significa che all’aumento del consumo s’impenna la mortalità. Nel 2022, però, la stessa Lancet ha pubblicato un altro studio del GBD che correggeva le risultanze della “J curve”. Confrontando un gruppo di consumatori e un gruppo di astemi, dimostrava come dai 40 anni in su la relazione causa-effetto tra un’assunzione moderata di alcol e il rischio di malattie non è lineare, ma fa proprio una curva a J. Gli stessi studiosi del GBD hanno, quindi, confermato i benefici di un consumo moderato dell’alcol. Noi dell’Irvas possiamo affermare dopo ampi studi epidemiologici che il consumo moderato di vino in età adulta (due bicchieri al dì per gli uomini, uno per le donne) in abbinamento a corretti stili alimentari riduce la mortalità rispetto agli astemi. È acclarato che il consumo moderato di vino favorisce la longevità, riduce il rischio di malattie cardiovascolari, di diabete e di disturbi cognitivi». Un paradigma grossolano viene dunque smentito. In virtù di un approccio che sia consapevolmente critico.