Home » Attualità » Energia » Quando per il green si sacrifica il blu (del mare)

Quando per il green si sacrifica il blu (del mare)

Quando per il green si sacrifica il blu (del mare)

Una vasta area dell’oceano Pacifico, la Clarion-Clipperton Zone, nasconde enormi quantità di minerali essenziali per costruire batterie elettriche. Ma la raccolta, che deve essere fatta «a strascico», mette in pericolo la vita marina, qui rara o sconosciuta. E in tanti si chiedono se per il «green» sia giusto sacrificare il Grande blu.


Per far funzionare un’auto elettrica con un pacco batterie da 75 kWh sono necessari 56 chili di nichel, 8 di litio, 7 di manganese e 7 di cobalto, più 85 chili di rame per il cablaggio elettrico. Una vettura di questo tipo utilizza cinque volte più minerali di una convenzionale, mentre un impianto eolico richiede otto volte più minerali di una centrale a gas della stessa capacità. È un grande paradosso. Per smettere di bruciare idrocarburi, pompare CO2 nell’aria e danneggiare l’ambiente che circonda i pozzi petroliferi, l’umanità punta sulle tecnologie verdi, che però provocano a loro volta altri problemi: hanno bisogno di risorse minerali e di miniere sempre più grandi e profonde da cui estrarli, con la relativa distruzione di interi habitat. Un circolo vizioso da cui una società canadese suggerisce una «geniale» via d’uscita: ha trovato il modo per fornire potenzialmente i metalli per 280 milioni di veicoli elettrici, l’equivalente di tutte le auto circolanti oggi negli Stati Uniti, senza «disagi per le comunità indigene, assenza di deforestazione e assenza di lavoro minorile durante la fase estrattiva». E con «il 90 per cento in meno di emissioni equivalenti di CO2 rispetto all’utilizzo di minerali provenienti da miniere terrestri». Già, perché la Metals Company di Vancouver intende recuperare questo «tesoro» minerale in mare. Precisamente nell’oceano Pacifico, in una vasta area compresa tra le isole Hawaii e il Messico che si chiama Clarion-Clipperton Zone. Si tratta di una vasta pianura abissale che si estende su circa sei milioni di chilometri quadrati, con profondità che va dai quattromila ai seimila metri. È considerata il più grande giacimento conosciuto del pianeta di metalli adatti alle produzione di batterie.

Sul suo fondale, infatti, sono disseminati dei noduli polimetallici, noti anche come noduli di manganese, che contengono quattro metalli essenziali per gli accumulatori di smartphone, computer e auto elettriche: cobalto, nichel, rame e manganese. Questi agglomerati hanno le dimensioni più o meno di una patata e si sono formati nell’arco di milioni di anni. «A differenza dei minerali terrestri, non contengono livelli tossici di elementi pesanti» sottolinea nel suo sito la Metals Company, start-up quotata nel 2021 al Nasdaq, e la produzione di metalli dai noduli «non lascia quasi nessun flusso di rifiuti solidi dietro di sé». Insomma, il fondale marino come fonte sostenibile degli elementi necessari per la produzione di batterie, «il modo migliore per garantire di poter affrontare le sfide della crisi climatica con il minimo impatto ambientale e sociale». La società canadese esplora da oltre un decennio la Clarion Clipperton Zone e ha ottenuto i diritti dall’autorità internazionale dei fondali marini (International Seabed Authority: ha il mandato di garantire la protezione dell’ambiente marino dagli effetti derivanti da attività legate ai fondali) con il sostegno di tre nazioni del Pacifico: Repubblica di Nauru, il Regno di Tonga e la Repubblica di Kiribati.

La Metals Company non è la sola azienda a guardare con interesse ai fondali della Clarion Clipperton Zone: contratti per l’esplorazione mineraria sono stati concessi a 16 appaltatori in un’area che copre circa un milione di chilometri quadrati (più di tre volte la superficie dell’Italia). Tra le società c’è anche la belga Global Sea Mineral Resources (Gsr), filiale del gruppo Deme specializzato in dragaggio, bonifica di terreni, costruzione di porti, appalti marittimi: nel 2013 la Gsr ha firmato con l’Autorità internazionale dei fondali marini un contratto di 15 anni per la prospezione e l’esplorazione su 76.728 chilometri quadrati del fondale marino nella parte orientale della Clarion Clipperton Zone. Per ora nessuna azienda ha iniziato a ricavare materiale, anche se per molte di esse il 2024 viene indicato come l’anno di avvio dei lavori. Per questo gli scienziati e gli ambientalisti sono in allarme e stanno promuovendo una serie di iniziative per bloccare le attività. Il timore è che l’estrazione dei noduli potrebbe provocare la distruzione della vita e dell’habitat nelle profondità marine. Due team di ricercatori, guidati entrambi da Muriel Rabone del Natural History Museum London, hanno scoperto che nei fondali della Clarion Clipperton Zone c’è molta più vita di quanto ci si potrebbe aspettare in luoghi così remoti: «Ci sono 438 specie note e nominate» ha spiegato Rabone, «ma sulla base dei dati che abbiamo, prevediamo che là sotto ci siano tra le seimila e le ottomila specie animali per lo più sconosciute».

Gli scienziati hanno monitorato le attività della Gsr e, secondo loro, l’entità del danno ecologico provocato da queste nuove attività sarebbe «elevato». «Ogni estrazione come quella di Gsr nel Pacifico orientale rimuoverebbe dal fondo marino ogni anno uno strato superficiale biologicamente attivo da un’area di circa 200-300 chilometri quadrati» ha dichiarato al mensile National Geographic Matthias Haeckel, biochimico marino a capo di un progetto di ricerca finanziato dai governi europei. «L’attività mineraria dovrebbe essere svolta in maniera tale da non provocare la perdita di biodiversità e di funzioni dell’ecosistema» aggiunge Ann Vanreusel, biologa marina presso l’Università di Gand in Belgio. Secondo gli scienziati i noduli sono componenti fondamentali di questo ecosistema, e rimuovendoli si danneggia l’intero ecosistema in modo irreversibile. I polpi, per esempio, depongono le uova sui resti delle spugne morte che crescono sui noduli. Inoltre le attività estrattive sottomarine presentano altri rischi: i veicoli sottomarini utilizzati per la raccolta emettono rumori e luci in un ambiente che normalmente è in completa oscurità. Il dragaggio del fondo marino solleva nubi di sedimenti e non si sa fino a quali distanze le correnti delle profondità marine le diffonderebbero: depositandosi nuovamente sul fondo, i sedimenti potrebbero soffocare le creature viventi che vivono anche molto lontano dall’area in cui si svolgono le operazioni.

Potenziali danni che hanno spinto oltre 620 scienziati ed esperti di 44 Paesi a firmare un appello per bloccare tutte le attività estrattive fino a quando non sarà chiarito quali possono essere le conseguenze ecologiche. Decine di agenzie governative nonché il Parlamento europeo supportano una moratoria, e diverse aziende, come Ford, Samsung e Google, hanno dichiarato che non si riforniranno con i minerali recuperati dalle profondità marine. Ma da dove li recupereranno? Da altre miniere terrestri? Dal riciclo? Oppure riusciremo a farne a meno inventando batterie di nuova generazione? Come ogni transizione, anche quella energetica presenta il conto. Salato come le acque del Pacifico.

© Riproduzione Riservata