- L’ALGORITMO DEI NOSTRI DESIDERI – Le «macchine pensanti» sono sempre più presenti nella nostra vita, per individuare i rischi di malattie o per rendere più confortevoli e sicure le nostre città. Presto potranno anche indovinare ciò che ci piacerebbe acquistare, portandocelo a domicilio… Un grande potere con grandi responsabilità. E i timori del caso.
- IN OSPEDALE C’E’ UN INFERMIERE ROBOT – Gli automi prenderanno il nostro posto in molti settori: anziché taxisti, radiologi, camerieri, giornalisti, addetti alla raccolta dei rifiuti, appariranno software e androidi perfettamente in grado di svolgere queste mansioni. Finiremo tutti disoccupati? No, a patto però di reinventarsi così…
Abbiamo a che fare con un robot in grado di leggere nel pensiero e mi sembra abbastanza importante scoprire come mai abbia questa facoltà». A parlare era la robopsicologa Susan Calvin, personaggio inventato dal genio fantascientifico di Isaac Asimov, nel suo Io, Robot, uscito nel 1950.
Oggi quello delle macchine predittive non è più il sogno dei futurologi, ma un meccanismo che sta per entrare in funzione, un tipo di tecnologia già esistente che aspetta di essere applicata e via via sviluppata. Lo sa bene Amazon, che già da tempo ipotizza di cambiare il suo modello di business attraverso l’Intelligenza artificiale (A.I). La sua capacità di prevedere i nostri acquisti, infatti, sta diventando talmente accurata da rendere più redditizio inviarci direttamente gli articoli che secondo i dati in suo possesso sarebbero di nostro interesse, piuttosto che aspettare che li ordiniamo. Il colosso delle vendite online – il cui giro di affari globale nel 2019 è stato di 280,52 miliardi di dollari – passerebbe così dal meccanismo denominato shopping-than-shipping (comprare poi inviare) a quello di shipping-than-shopping.
Se oggi attraverso l’abbonamento Prime di Amazon possiamo ricevere un libro o altri articoli l’indomani mattina, con «Prime now» avere la spesa in un’ora e attraverso l’app ricomprare prodotti già ordinati altre volte con un solo clic, tra un po’ di tempo forse potremmo vederci recapitare il paniere dei sogni, quello neppure immaginato ma in effetti adatto a noi. Come spiegano alla Rotman school of management dell’Università di Toronto, Amazon in quel caso dovrebbe investire in un’infrastruttura titanica per la restituzione dei prodotti, forse con veicoli che una volta a settimana ritirino la merce non desiderata. L’azienda già nel 2017 ha lanciato un sistema, «Amazon key», che permette al corriere di aprire la porta di casa del cliente e mettere il pacchetto all’ingresso, il tutto seguito dall’occhio vigile di una telecamera. E allora perché non si è già passati a questo servizio? Per due motivi: per ora il costo della raccolta dell’invenduto è ancora antieconomico e poi perché questo ritardo, prima di convertire il vecchio modello di commercio, sta permettendo alla A.I. di imparare ancor di più su preferenze e gusti delle persone.
Diciamo questo poiché le macchine predittive si basano sui dati e una maggiore quantità di dati di migliore qualità consente previsioni più precise. Questa massa di informazioni ha tre funzioni: fa da input all’algoritmo, come fosse il suo cibo; gli fa da training, cioè le macchine imparano dai dati, fanno allenamento; infine fornisce un feedback, cioè danno un giudizio sulle performance dell’algoritmo. I dati costano, non per niente sono considerati il «petrolio» di oggi e soprattutto di domani, e la prova del loro valore è il fatto che senza informazioni personali una macchina intelligente, per esempio in ambito medico-cardiologico, non potrebbe prevedere il rischio di un infarto.
Nello specifico, per anticipare un’eventuale aritmia cardiaca, l’A.I. deve imparare in che modo i dati siano associati a veri episodi di alterazione e conoscere la frequenza cardiaca di persone sane per comparare andamenti del cuore regolari e irregolari. Daniel Kahneman, in Pensieri lenti e veloci (Mondadori), spiega come in situazioni complesse gli esperti umani facciano spesso previsioni sbagliate, e questo porti poi a una capacità di giudizio viziata e parziale.
Uno studio del 2017 del National bureau of economics research sulle decisioni di rilascio su cauzione dei giudici americani ha evidenziato come il «machine learning» (l’apprendimento automatico delle macchine) abbia preso decisioni migliori dei giudici. Motivo? Le variabili da considerare sono tante, dal pericolo di fuga alla possibilità che l’imputato commetta altri reati, inoltre i giudici tendono a usare dati fuorvianti, come il comportamento dell’imputato in aula o il suo aspetto. Avete presente il sorriso finto buono del delinquente? Ecco… la macchina non si fa ingannare. Il machine learning riguarda anche i social.
Come spiega a Panorama l’esperto di innovazione Luca La Mesa, «Facebook sta implementando l’A.I. nel suo sistemi per prevenire i suicidi». Si tratta di «un software che analizza se il comportamento di un utente sia simile ad altri che hanno provato a togliersi la vita». Una prospettiva che stravolge, accrescendole, le possibilità di intervento di forze dell’ordine e istituzioni nella sfera sociale. Un’ingerenza nella privacy dei cittadini? Aggiunge La Mesa: «Proviamo a chiederci cosa accadrebbe se lo stesso software potesse prevedere un attentato o un assassinio: noi singoli utenti accetteremmo di condividere i nostri dati sensibili per far sì che la società abbia gli strumenti per fermare un omicida, posto che potrei essere io quell’omicida?».
Le implicazioni etiche, dunque, sono pressanti. I docenti universitari Ajay Agrawal, Joshua Gans e Avi Goldfarb nel loro recente saggio Macchine predittive (Franco Angeli) fanno notare come la storia ci insegni che «l’impatto delle innovazioni più rilevanti si avverta sempre nei luoghi più inattesi», intendendo anche luoghi metaforici. L’A.I. avrà ripercussioni che per ora non possiamo individuare con precisione, ma su cui andrà aperto il dibattito pubblico e politico in tutti i Paesi. Al di là delle prospettive sociali, le macchine «che pensano» hanno potenzialità molto concrete in vari settori, già in sperimentazione. Microsoft per esempio, che gestisce numerosi progetti di tecnologia intelligente in Italia, ha testato il concetto di «smart city» in un quartiere di Bergamo, il Chorus life, dove gli edifici, in collaborazione con Gewiss e Siemens, sono stati interconnessi in rete dando la possibilità di tenerne sotto controllo l’impiantistica da remoto, così da aumentare sicurezza, comfort e sostenibilità. Con CNH Industrial, invece, ha innovato le macchine agricole usando il cloud computing: un sistema di archiviazione, elaborazione e trasmissione di dati che consente di ottimizzare le coltivazioni e il raccolto con una esattezza e un calcolo dei risultati finali impossibili per l’uomo.
Sul tema algoritmi, infine, il colosso di Bill Gates sta prendendo una posizione politica. Il 28 febbraio la società ha siglato insieme alla Pontificia accademia per la vita, Ibm, Fao e al governo italiano, la Rome Call for A.I. ethics, una carta per fissare una deontologia di settore. Il documento ruota attorno a sei parole chiave: trasparenza, inclusione, responsabilità, imparzialità, affidabilità e sicurezza (che si abbina al concetto di privacy).
Quella sulle «macchine pensanti» è una partita globale, dove la Cina, per esempio, non solo detiene la leadership scientifica, ma ha anche una popolazione più numerosa, zero vincoli sulla privacy, fabbriche per addestrare robot e bravi ricercatori. Il governo di Pechino ha pianificato di investire da qui al 2030 150 miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale, con un focus sulle città militari. Del resto l’ex Celeste impero vanta già un sofisticato sistema di sorveglianza, con 200 milioni di telecamere di sicurezza in tutto il Paese. Questa rete utilizza gli algoritmi per il riconoscimento facciale, in particolare di fronte alle stazioni della metropolitana come deterrente per i crimini.
Se la Cina è uno dei Paesi più avanzati in questo settore, anche il leader russo Vladimir Putin è ben consapevole della potenza degli algoritmi. Nel 2017 ha affermato: «L’Intelligenza artificiale è il futuro». Aggiungendo: «Ma porta con sé delle minacce». A che cosa si riferiva? A qualcosa di molto concreto qual è il lavoro, come racconteremo nella prossima puntata di questa inchiesta.
IN OSPEDALE C’E’ UN INFERMIERE ROBOT

Gli automi prenderanno il nostro posto in molti settori: anziché taxisti, radiologi, camerieri, giornalisti, addetti alla raccolta dei rifiuti, appariranno software e androidi perfettamente in grado di svolgere queste mansioni. Finiremo tutti disoccupati? No, a patto però di reinventarsi così…
di Maria elena Capitanio
Non può innamorarsi, ma ti conquista. Alto come un bambino di sette anni, ha grandi occhi allegri e rassicuranti, ti capisce al volo ed è sempre pronto a venirti in aiuto. Si chiama Sanbot Elf ed è il robot della Omitech sbarcato in questi giorni all’ospedale di Circolo di Varese con altri sei «colleghi» per assistere i malati di Covid-19. Questi assistenti di 19 chili con batteria al litio tengono monitorata la frequenza cardiaca e respiratoria, la pressione e altri parametri vitali, oltre a permettere al personale sanitario di comunicare da remoto con i pazienti senza pericolo di contagio.
È solo una delle tante applicazioni dell’Intelligenza artificiale (A.I.), che se già oggi ci permette di avere infermieri, compagni di giochi e addetti all’accoglienza in versione robot, in un futuro sempre più vicino potrebbe addirittura sostituirci nel lavoro. «Probabilmente esseri umani e A.I. collaboreranno» dice Joshua Gans, ordinario di Innovazione tecnica e imprenditoriale all’Università di Toronto, ma è prevedibile che alcune persone avranno «un lavoro meno interessante di quello che svolgono oggi», soprattutto nei settori automobilistico, agricolo e di lavorazione dei metalli, e in genere nelle mansioni manuali. Secondo i dati raccolti da McKinsey, da qui al 2030 saranno tra 400 e 800 milioni le persone che rischiano di perdere il lavoro a causa dell’automazione, ma tra 75 e 375 milioni potrebbero trovare una nuova occupazione se debitamente formati. La notizia interessante è che a quella data l’8-9 per cento dei lavoratori svolgerà una professione che oggi neppure esiste. Psicologo dei cyborg, stampatore di organi in 3D e trainer dei cervelli artificiali sono alcune delle opzioni all’orizzonte. Lo scenario attuale, con un mercato italiano dell’A.I. che vale 200 milioni di euro, ha già molto da raccontarci e Panorama è andato a osservarlo da vicino.
Addio autisti
«La guida autonoma ha diversi gradi rispetto a quello che riesce a fare, attualmente siamo al secondo di cinque» spiega Walter Aglietti, direttore software Lab e AI teams di Ibm Italia. Livello due significa che tecnicamente le auto sono già in grado di guidare in maniera semi-autonoma in alcuni contesti, come in autostrada. «La guida completamente autonoma, in perfetta sicurezza per chi sta nel veicolo e chi sta fuori, dovremmo averla entro trent’anni». Detta così sembra una data remota, per i molti che si aspettano città alla Blade Runner, ma a parte ciò che avviene nelle sperimentazioni in ambienti controllati, la verità è che oggi i mezzi automatici possono sì trasportare persone da un punto a un altro, ma non tengono ancora conto in modo soddisfacente delle persone che viaggiano nell’automobile.
Quando si raggiungerà il fatidico livello 5, di totale automazione dei mezzi, la macchina ragionerà da sé e a noi non resterà che fare i passeggeri di un veicolo senza pedali né volante, comandato in tutte le sue funzioni da un computer di bordo. A quel punto, ma anche ben prima, che farà l’autista di scuolabus? Le sue competenze cambieranno: non sarà più al volante, ma sarà il responsabile che controlla gli scolari per tutelarli da pericoli esterni e mantiene la disciplina nel veicolo. Il suo stipendio? Molto probabilmente diminuirà… A rischio invece i taxisti, che già con l’avvento dei navigatori incorporarti agli smartphone hanno subìto un duro colpo. Emblematico il caso di quelli londinesi: fino a qualche anno fa per ottenere la licenza studiavano per tre anni le mappe della città a memoria, ora quelle competenze si sono drammaticamente svalutate.
Sanità ad alta tecnologia.
«Adesso dovremmo smettere di formare i radiologi». A dirlo era stato nel 2016 uno dei pionieri delle reti neurali – i modelli di neuroni artificiali che imitano le funzioni del cervello -, Geoffrey Hinton. Il lavoro dei radiologi è principalmente leggere delle immagini e rilevare le irregolarità che indicano patologie. Presto l’A.I. sarà in grado di individuare presenze di rilevanza clinica meglio di quanto possa fare un uomo. Il lavoro di questi professionisti della medicina sarà soppiantato? Nient’affatto, casomai cambierà. Il tempo di lettura delle immagini diminuirà, ma sarà ancora il medico a stabilire quali esami diagnostici dovrà fare un paziente e a interpretare le immagini rispetto alla natura probabilistica che si tratti o meno di una patologia. Le macchine con il tempo diventeranno sempre più accurate nei risultati e sarà allora che i radiologi diventeranno esperti di training dell’A.I., saranno loro cioè a insegnare ai «device» tecnologici a fare diagnosi.
C’è poi il tema dei dati, che sono il nutrimento del machine learning (l’apprendimento automatico) ed è qui che entrano in gioco altri tipi di innovazioni della sanità. Per i tumori cerebrali pediatrici, per esempio, l’Ibm e l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma stanno sviluppando algoritmi per accelerare la diagnosi e il trattamento dei piccoli pazienti, permettendo così ai medici di modificare il percorso terapeutico e migliorare i risultati finali.
La sanità è uno dei settori in cui l’A.I. sta compiendo la rivoluzione più profonda e le nuove professioni sono sempre più vicine: come il medico a distanza che, attraverso la telemedicina (possibile con il 5G) potrà operare da remoto, ma anche il designer di organi artificiali. Esistono corsi per la salute 4.0 in tutto il mondo. All’Università di Basilea c’è il laboratorio di stampa tridimensionale applicato alla medicina, così come alla Humanitas University e Politecnico di Milano si insegnano materie quali nanotecnologia, bioprotesi e big data. A Oxford hanno già unito medicina, computer scienza e ingegneria per formare i professionisti di nuova generazione.
Robotizzazione dei servizi
Banche, assicurazioni e compagnie telefoniche da tempo hanno iniziato ad affidarsi a software chat-bot nell’assistenza ai clienti, in grado di comprendere il linguaggio naturale umano e simulare una conversazione. I colossi delle carte di credito lo usano per gestire le richieste di saldo e movimenti delle transazioni e la qualità del servizio è altissima. Sempre nei servizi, alcuni marchi della ristorazione utilizzano camerieri-robot in grado di interagire. Dopo Stati Uniti e Cina, sono arrivati anche in Italia locali in cui è possibile ordinare attraverso un tablet e ricevere il cibo da robot e androidi umanoidi, con volti in materiale «gommoso» effetto pelle. Mentre a Cesano Maderno, al ristorante di sushi Harmony c’è Xiao Ai, arrivato dalla Cina in ottobre, che si aggira con i suoi circuiti in grembiule e foulard. Si prevede che nel medio-lungo periodo la mansione ai tavoli potrebbe scomparire dal «menu» dei lavori umani. La Federazione italiana pubblici servizi stima che la probabilità di robotizzazione in questo settore sia di 0,94 in una forbice tra 0 e 1.
Secondo l’Oecd employement, la percentuale di posti a rischio causa automazione in Italia è del 15,2 per cento, negli Stati Uniti del 10,2 e in Germania del 23,4. Altro esempio è quello della gestione del ciclo dei rifiuti, con robot spazzini e altri smistatori per la raccolta differenziata: come Rocycle, realizzato dai ricercatori del Mit, il Massachussets Institute of Technology di Boston, in grado di riconoscere la tipologia di rifiuto e suddividerlo senza errori.
E i giornalisti? Nelle redazioni del Washington Post, di Bloomberg News e dell’Associated Press sono entrati stabilmente Heliograf, Cyborg e Berti, «bot» che scrivono in autonomia centinaia di brevi articoli, ideali per le breaking news.
Capacità che ci salveranno
«L’essere umano non potrà mai essere superato dalle macchine nel ragionamento astratto, nella capacità di interpretare gli eventi» precisa Aglietti. E poiché «i fenomeni globali saranno sempre più complessi, richiederanno non solo competenze tecnologiche, ma anche un approccio civico». Per educare le macchine «servono saggezza e cultura».
Le abilità più richieste per non diventare disoccupati, secondo l’Ocse, saranno il saper insegnare, pianificare, dare consigli, influenzare e risolvere problemi che esulino dal puro sforzo computazionale in cui le intelligenze robot sono imbattibili. Ma quali saranno i lavori umani del prossimo futuro? Baby sitter a distanza, che nell’epoca delle pandemie si relazioneranno con i bambini da remoto. Il sarto, che userà il laser al posto di ago e filo. Il manager dell’identità online, che analizzerà per noi le statistiche e si preoccuperà della nostra «reputazione digitale». L’esperto di socialità, che ci permetterà di mantenere viva la nostra rete di contatti umani alla luce del diradamento relazionale causato dall’A.I. (e chissà, dal rischio di pandemie…). L’ingegnere del corpo 3D, che si occuperà della manutenzione delle parti artificiali del corpo umano. Infine l’assistente pilota negli aerei a guida automatica.
Già da molti anni gli airbus usano l’intelligenza artificiale per gli spostamenti aerei, ma tra qualche tempo l’umanità avrà il problema che nessun pilota di nuova generazione avrà maturato esperienza di guida manuale, adagiato sugli allori dell’automazione. Nel 2009 il volo 447 di Air France partito da Parigi direzione Rio de Janeiro si è inabissato nell’Atlantico. Il pilota automatico si è disinserito a causa del forte maltempo, e quello umano, relativamente inesperto, ha gestito male la situazione. Ecco una delle conseguenze paradossali (seppur drammatiche) del totale affidamento a un’intelligenza imprescindibile, quella artificiale, ma non abbastanza formidabile da spedire in soffitta la nostra.