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Racconti dalla prima linea in Israele

Racconti dalla prima linea in Israele

Dalla Striscia di Gaza, dove è in corso l’offensiva «Spade di ferro» per sradicare Hamas, l’inviato di Panorama racconta le storie di soldati e civili impegnati nella battaglia che, per loro, significa esistere o scomparire.


II fungo nero dell’esplosione invade il cielo salendo in mezzo ai palazzi di Ashdod, la città israeliana 20 chilometri a Nord dalla striscia di Gaza. Un minuto prima ha suonato la sirena d’allarme ed è entrato in azione Iron dome, il sistema antimissile israeliano che si riconosce dai ripetuti tonfi secchi. Le scie bianche degli intercettori salgono a zig zag per far esplodere i razzi di Hamas. Non sempre riescono a bloccarli. Un missile è piombato nel parcheggio di un condominio nel centro di Ashdod scatenando l’inferno. Macchine bruciate con i serbatoi che esplodono in potenti fiammate e una sventagliata di schegge fino al quarto piano di una palazzina residenziale.

«Stavamo giocando come sempre a calcio» racconta Doron con il pallone in mano. «Ho visto l’esplosione e le fiamme. Tremava tutto. Anche se ci sono abituato ho avuto davvero paura. È la prima volta che un razzo cade così vicino». Dall’attacco stragista di Hamas del 7 ottobre al 1° novembre sono stati lanciati ottomila missili e colpi di mortaio dalla striscia di Gaza verso Israele. Il 10 per cento ha mancato il bersaglio, cadendo sul territorio palestinese. L’operazione israeliana «Spade di ferro», che vuole farla finita con Hamas, ha colpito a fine ottobre 11 mila obiettivi a Gaza, una fetta di territorio sul Mar Mediterraneo, lunga 40 chilometri e larga 10, con una densità abitativa fra le più alte al mondo. Il 1° novembre il bollettino della sanità palestinese, che in passato si è dimostrato gonfiato, registrava 8.796 vittime, compresi 3.648 bambini. Lungo la linea di confine con Gaza spuntano a intermittenza le colonne di fumo dei bombardamenti israeliani e il crepitare della mitragliatrice segnala che la brigata di fanteria d’assalto Givati sta entrando nella Striscia. Dalla collina di Sderot che domina Gaza si vedono i palazzi bianchi avvolti dal fumo; la notte i bagliori rossastri delle esplosioni rendono la scena apocalittica.

«Gaza? È a mille metri, proprio dietro la linea degli alberi. Si vedono le case. Quasi ogni giorno continuano a piombare razzi sul kibbutz, completamente devastato dai terroristi» dice Roni Sfedy, il capo della sicurezza di Kissufim. Occhiali scuri e fucile mitragliatore Ar-15 a tracolla, indica una casa ridotta dalle fiamme a uno scheletro di cemento annerito: «Il 7 ottobre madre, padre, bambino e cane sono stati bruciati vivi». I tagliagole di Hamas hanno invaso il kibbutz e Roni si è difeso per ore. «Alla fine mi sono chiuso nella stanza blindata con cinque figli» ricorda con un groppo in gola. «Se i terroristi fossero riusciti a entrare li avrei uccisi piuttosto che farli finire nelle loro mani. E avrei lasciato l’ultimo colpo per me». Il kibbutz di Nir Oz, altro obiettivo dell’attacco di Hamas, è a ridosso della prima linea. In una cucina data alle fiamme è rimasta su una parete la firma con lo spray della mattanza, «Brigate Ezzedin al-Qassam», la costola armata di Hamas. Un kibbutzin conferma che «sono state uccise o rapite 100 persone su 400 abitanti. Uno su quattro». E ci porta a vedere le macchie di sangue in una stanza blindata sfondata dai terroristi, che devono aver trascinato fuori le vittime ancora rantolanti lasciando sul pavimento una scia rossa.

Dopo l’attacco via terra l’esercito israeliano si è chiuso a riccio con i giornalisti, ma fornisce dettagliati resoconti delle operazioni, anche se nessuno può controllarli al fronte. Hamas ha costruito una Gaza sotterranea con 400 chilometri di tunnel. Fin dall’inizio dell’offensiva uno degli obiettivi prioritari è stata la sistematica eliminazione dei suoi comandanti. Ratib Abu Tzahiban guidava le forze navali e aveva inviato una squadra di uomini rana verso Tel Aviv, intercettata dalla marina israeliana. Asem Abu Rakaba era il capo delle forze «aeree» di Hamas composte da droni leggeri e deltaplani a motore e parapendii, per seminare morte e terrore al rave nel deserto del Negev. Altro obiettivo neutralizzato è Madhath Mubashar, comandante del battaglione Khan Yunis, il campo profughi dove sono nati i super ricercati Mohammed Deif, capo delle brigate al-Qassam e Yahya Sinwar, «premier» di Hamas a Gaza. Entrambi sarebbero annidati nel centro di comando e controllo sotto l’ospedale Shifa, il principale della Striscia.

«Il vero incubo dell’avanzata sono gli ostaggi. È dura dirlo, mi fa male al cuore, ma per vincere dobbiamo combattere come se non ci fossero. Sono lo scudo più forte dei terroristi, che li usano per ottenere una tregua, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi e guerra psicologica» afferma dall’ospedale un ufficiale della leggendaria Flottilla 13, le forze speciali israeliane. Non può dire il proprio nome, ma per liberare uno dei kibbutz più devastati è stato raggiunto da tre proiettili: due si sono conficcati nel giubbotto di protezione e uno gli ha perforato un polmone. «Dopo 11 ore di battaglia casa per casa, quasi tutte minate, avevamo eliminato 26 terroristi e liberato 25 israeliani» ricorda. «Poi ho sentito la “voce” del kalashnikov troppo vicina. La prima raffica ha centrato me e colpito alle gambe il radio operatore. Il medico, corso in nostro soccorso, è stato falciato dalla seconda raffica davanti ai miei occhi». Non riusciva a respirare, ma un soccorritore di prima linea gli ha aperto la ferita per fare uscire il sangue ed entrare l’aria. «Sono un miracolato, e non dimenticherò mai l’orrore dei corpi straziati dei civili finiti con un colpo alla nuca, donne, bambini, anziani».

In prima linea ci sono anche i cani. Naro, un soldato a quattro zampe dell’unità speciale Oketz, ha individuato un’imboscata di Hamas. Nell’aspra battaglia gli israeliani hanno avuto la meglio, ma il cane «eroe» è stato colpito a morte. L’angoscia attanaglia i familiari degli ostaggi. Sasha Ariev, 24 anni, indossa una maglietta bianca con la scritta «mia sorella è sequestrata a Gaza». I 240 fasci di luce che si dirigono verso il cielo, uno per ogni ostaggio, con le foto di bambini, anziani e soldati disseminate a terra sono lo struggente memoriale a Gerusalemme. «Mia sorella Karina ha 19 anni. L’abbiamo vista in un video dei terroristi quando sono entrati nella sua base. Aveva il volto sporco di sangue, ma era viva» racconta la minuta Sasha. L’ultimo messaggio ricevuto via whatsapp è toccante: «Ti prego devi essere felice. Prenditi cura dei nostri genitori. Non addolorarti. Vivi!». Yotam Kipnis è orfano di Liliach e Tari, di origini italiane, prima dispersi poi riconosciuti fra i corpi bruciati dai terroristi. «Il bisnonno di papà era Giacomo di Castelnuovo, medico del re Vittorio Emanuele II» dice Yotam. «Mia madre, pacifista, si batteva per i diritti delle donne. L’unica soluzione a questa tragedia è due popoli e due Stati». L’aspetto incredibile è che la sua vasta famiglia del kibbutz Beeri conta sette parenti in mano ad Hamas, compresi due bimbi di 8 e 3 anni.

Se Gaza brucia, il fronte Nord al confine con il Libano rischia di esplodere. Il kibbutz Sasa si trova a un chilometro e mezzo dalle postazioni di Hezbollah, i giannizzeri di Teheran. «Siamo in prima linea» spiega Angelica Edna Calo Livne. «Per la prima volta, io, una pacifista, mi sono portata una pistola per andare a raccogliere le mele nei campi». Non è l’unica di origine italiana. Luciano Assin, nato a Milano, ci mostra la stanza blindata con tanto di filtro «per attacchi batteriologici». Cesare va orgoglioso dello scudetto della Roma che porta al collo e del nastrino tricolore al polso. Divisa verde oliva e mitra a tracolla fa parte della forza di protezione del kibbutz: «Le sirene suonano di continuo. Dormiamo poco da giorni, ma questa è la nostra casa e non si arrende nessuno». Di notte il ronzio dei droni si mescola al rombo dei caccia che colpiscono le cellule di Hezbollah oltre confine. In pieno giorno gli sciiti libanesi del Partito di Dio tirano un missile anticarro contro uno dei Merkava annidati nella boscaglia. La riposta dell’artiglieria israeliana non si fa attendere e pennacchi di fumo bianco si alzano oltre le colline.

Attacchi e raid aerei aumentano e la Difesa israeliana ha dispiegato nel Nord i paracadutisti dell’unità di riservisti 646. «È un reparto come la Folgore» spiega uno di loro, che ha lasciato i genitori in centro Italia. «Finito il liceo mi sono arruolato per far sì che non ci sia un nuovo Olocausto». Un migliaio di giovani come lui, con la doppia cittadinanza, combatte nelle file di Tzahal. Nella notte buia come la pece si addestra con la sua squadra di parà arrivati anche da Francia e Stati Uniti. «Per noi è una battaglia esistenziale, ma domani potrebbe accadere nelle vostre case» fa notare con l’arma in pugno. «Cosa farete? Direte, oh cavolo, è troppo tardi?».

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