Nel 2025 Pechino diventerà il primo mercato mondiale per i prodotti di fascia alta. Per questo è pronta a sfidare l’Occidente anche sul fronte dell’eleganza con marchi locali. Uno scenario rafforzato dalla volontà del presidente Xi Jinping di «correggere» i guadagni miliardari dei super ricchi.
Neppure Ferrari e Lamborghini devono dormire sonni tranquilli. La «rossa» cinese della Silk-Faw si chiamerà Hongqi S9, avrà 1.400 cavalli, arriverà sul mercato a inizio 2023, ma è già stata presentata in aprile al Salone di Shanghai e in questi giorni alla Milano Design Week. Il bolide da oltre un milione di euro sarà prodotto a Reggio Emilia, nel cuore della «motor valley» emiliana dove i cinesi hanno investito miliardi. Inizialmente. Perché l’importante è imparare a costruire e lanciare i marchi. Poi, chi fa cosa e dove, si vedrà più avanti.
Solo che quando si ha a che fare con un capitalismo di Stato assai previdente e pervasivo come quello cinese non è difficile indovinare come andrà a finire. Anche perché i segnali di questi ultimi mesi sono inequivocabili: basta unire i puntini e si capisce che Pechino è pronta a sfidare l’Occidente non solo sul terreno delle tecnologie e delle grandi infrastrutture, ma anche dell’eleganza e del lusso. Tutto «made in China».
L’industria cinese ormai ha imparato a produrre in proprio gioielli di livello europeo, borse, orologi, alta moda pronta e presto potrà fare a meno dei designer stranieri. Nel 2002, il mercato del lusso cinese valeva 2 miliardi di dollari (fonte: Ernst & Young). Nel 2020 ha sfondato quota 50 miliardi di dollari (fonte: Bain-Tmall Luxury) ed è il terzo alle spalle di Usa e Ue. Nel 2025 al massimo, ai ritmi di crescita attuali, conquisterà la prima posizione. Casualmente, è lo stesso orizzonte temporale dell’ultimo programma economico lanciato dal governo di Pechino. Il suo nome è «Made in China 2025» e mira a fare della Cina il campione della manifattura e della tecnologia mondiali.
Ovviamente il settore dei beni di lusso non compare nell’elenco ufficiale dei settori d’intervento, perché il moralismo di facciata del Partito comunista sta bene attento a distinguere tra ciò che è «necessario» al suo popolo e ciò che è semplicemente «voluttuario», ma una svolta nazionalista in economia è destinata ad avere effetti ad ampio raggio.
Da mesi, Xi Jinping in ogni occasione pubblica invita i cinesi a «comprare cinese» e nella scorsa primavera il governo ha messo a punto nuove direttive per le aziende di Stato che spingono verso un’autarchia quasi totale. Solo così si può capire il senso, e la perfetta scelta di tempo, dell’ultima sortita del presidente. Lo scorso 17 agosto, parlando al Comitato centrale per gli affari economici e finanziari del Partito comunista cinese, ha annunciato un secondo grande obiettivo: promuovere la «prosperità comune» in tutta la nazione, andando a «correggere i guadagni eccessivi dei pochi super ricchi».
Dopo le parole di Xi, che fanno presagire aliquote fiscali più severe per i miliardari e dazi sulle importazioni, in soli due giorni i colossi del lusso internazionale come Hermès, Lvhm (che controlla marchi come Dior, Bulgari, Louis Vuitton), Richemont (Cartier, Montblanc, Yoox) e Kering (Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta) hanno polverizzato in Borsa oltre 100 miliardi di euro di capitalizzazione. Gli allarmi finanziari sono sempre relativi e le azioni vanno su e giù per definizione, ma possono indurre a qualche riflessione per il futuro. Anche sul lusso, com’è avvenuto in altri settori (basti pensare alla siderurgia o ai semiconduttori), la Cina può fare da sola e poi perfino esportare?
Secondo Euromonitor Research (Dublino), quest’anno la Cina rappresenterà oltre il 40% della domanda mondiale di beni di lusso e non sarà mai facile impedire a un ricco cinese di spendere 2.000 dollari per una borsa di Gucci o di Prada, o di investirne 5.000 per un orologio di Cartier.
Ovviamente, tenendo sempre presente che anche comprarsi un rossetto di Estée Lauder o di Dolce&Gabbana da 40 dollari rappresenta un acquisto di lusso. E la domanda di lusso ha più a che fare con le aspettative e l’ottimismo che con il reddito attuale.
Negli ultimi vent’anni, la Cina ha saputo scrollarsi di dosso l’immagine, anche un po’ stereotipata, di nazione dove si copia tutto, anche falsificando i marchi. Per accreditarsi meglio è stata necessaria un’accorta politica delle alleanze, come quella che nello scorso novembre ha portato il gigante cinese dell’e-commerce Alibaba a dare vita a una joint venture da 1,1 miliardi di dollari con i francesi di Kering e gli svizzeri di Richemont.
Se si tiene presente che già oggi i due terzi degli acquisti di lusso del Paese provengono da ventenni che comprano solo online, si capisce che si tratta di un investimento più che promettente. Oltre a tutto, la pandemia cinese, con relativo rallentamento del turismo internazionale, ha inferto un duro colpo agli acquisti fisici, come testimoniano le chiusure di negozi di alta moda perfino nel centro di Milano.
Ma come per le macchine sportive, anche la moda richiede un saper fare e qui le stiliste e gli stilisti cinesi sono una realtà internazionale già da diverso tempo. Emblematica la storia della casa di moda Jiang Shang Xia, il cui pacchetto di maggioranza è stato rilevato lo scorso anno dalla Exor della famiglia Agnelli-Elkann per 80 milioni di euro. Fondata 11 anni fa a Shanghai, è tuttora diretta dalla stilista Jiang Qiong Er, 44 anni, che ha studiato architettura d’interni e design all’École nationale supérieure des Arts décoratifs di Parigi, e dopo aver lavorato per Hermès ne è stata il socio operativo in Cina. Il gruppo ha negozi a Pechino, Parigi, Chengdu, Hangzhou, Shenzhen e Singapore. Il know how francese c’è e le possibili sinergie con il marchio Ferrari (che ha lanciato una propria collezione di moda) sono evidenti. Le produzioni di Shang Xia? Naturalmente in Cina, per il 90%.
La designer Uma Wang, 48 anni, studi in Cina e poi a Londra, ha invece scelto l’Italia per produrre le sue collezioni e ha un centinaio di boutique in mezzo mondo, a cominciare da Londra, Milano, New York. Ovviamente ha negozi in tutte le metropoli cinesi ed è presenza fissa alla Settimana della moda di Shanghai. Marchio cinese-globale per definizione, Wang ha tutte le carte in regola per gestire senza troppi problemi anche un eventuale giro di vite «patriottico» di Pechino.
Angel Chen, trentenne di Shenzhen che vive tra Londra e Shanghai, con il suo omonimo marchio di abbigliamento e scarpe è considerata uno dei grandi talenti emergenti del lusso cinese. Cosmopolita, conosciuta e venduta in tutto il mondo, Chen ha raccontato di aver studiato con estrema minuzia i costumi dell’Opera di Pechino. E produce tutto in patria.
Se invece si ambisce all’accesso in un mercato da 50 miliardi di dollari l’anno come quello cinese dei gioielli (non tutto è lusso, per carità) bisogna passare da Chow Tai Fook, con i suoi 5 mila negozi fra Cina, Giappone, Corea, Sud-est asiatico e Stati Uniti. Nato nel 1929 e quotato alla Borsa di Hong Kong dal 2011, Chow Tai Fook vende allo stesso tempo grandi marchi stranieri e linee create e prodotte in proprio.
Segnali preoccupanti, per l’Occidente, arrivano anche dal fronte delle sneaker di moda, tipico esempio di quello che gli esperti di marketing chiamano «lusso sostenibile». Dopo che, a inizio anno, le grandi catene cinesi hanno cominciato a boicottare i marchi Adidas e Nike, in sei mesi le azioni del concorrente locale Li-Ning sono raddoppiate di valore alla Borsa di Hong Kong.
Nonostante l’apertura di negozi negli Stati Uniti e l’ingaggio come testimonial di varie stelle della Nba americana negli ultimi 10 anni, Li-Ning non era mai riuscita a sorpassare Nike sul mercato interno. Se lo farà quest’anno, come sembra assai probabile, sarà la prova che la ricetta «Vado, studio, collaboro, torno», con una spruzzata finale di patriottismo, è semplicemente perfetta.