Un anno e mezzo fa quasi un centinaio di migranti morirono nel naufragio del loro caicco sulle coste calabresi. Sono sei i militari indagati per la tragedia, ma la ricostruzione dei pubblici ministeri non è priva di cortocircuiti logici e investigativi.
Beccheggia nel mare in tempesta l’inchiesta sul naufragio di Cutro (26 febbraio 2023: 94 annegati), incapace di ancorarsi a una ricostruzione dei fatti che sia più solida di quella tratteggiata dai pm di Crotone nell’avviso di conclusione delle indagini notificato, a fine luglio, a sei militari: quattro della Guardia di finanza e due della Capitaneria di porto di Vibo Valentia. Accusati, a vario titolo, di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Negli atti del procedimento il focus investigativo è tutto concentrato sulle cause che hanno impedito alle «autorità preposte al controllo del mare territoriale» di «tentare di intercettare il caicco», poi affondato, che era stato «tempestivamente segnalato dall’agenzia europea Frontex (sede di Varsavia, ndr) in navigazione verso le coste calabresi».
L’indagine sembra però sorvolare su alcuni dettagli che, opportunamente valorizzati, offrirebbero una chiave di lettura differente rispetto alle ipotetiche condotte «negligenti» degli operatori. Ai quali, per esempio, arriva la comunicazione del natante «Summer love», partito dalla Turchia, senza alcuna indicazione su eventuali criticità a bordo. Anzi: Frontex rileva che la barca «risultava navigare regolarmente… a sei nodi e in buone condizioni di galleggiabilità… con solo una persona visibile sulla coperta della nave». Tanto che scatta non una operazione di salvataggio (Sar) ma di polizia (law enforcement).
Solo che il mare aveva cominciato velocemente a gonfiarsi, raccontano sempre i documenti del fascicolo, rendendo impossibile la prima manovra di avvicinamento al «target», come era stato definito la carretta. La vedetta delle Fiamme gialle V5006 è stata infatti costretta a tornare in porto «per le avverse condizioni riscontrate proprio nella zona in cui era atteso» il barcone. Barcone che, c’è da aggiungere, al di là della prima indicazione fornita dal velivolo dell’agenzia europea, resta sostanzialmente invisibile perché, sono gli stessi magistrati a scriverlo, «gli operatori non ne conoscevano la rotta». Come avrebbero potuto, allora, agganciarlo? Né avrebbero potuto tracciarlo via radar perché, come si legge nelle carte del procedimento, i «dispositivi radar della sala operativa della Guardia di finanza in astratto potevano monitorare fino a 96 miglia, ma erano tarati sulle dodici miglia e non avevano personale in grado di ampliare la zona di copertura» e, quindi, «di utilizzare i dispositivi radar secondo le potenzialità massime». Insomma, tutto quella maledetta notte sembra convergere verso il più drammatico degli equivoci.
I magistrati contestano ai finanzieri «le modalità esecutive delle azioni da svolgere in seguito all’avvistamento del natante» oltre che l’«omessa completa comunicazione delle difficoltà di navigazione incontrate a causa delle condizioni meteomarine, nonché il ritardo nel predisporre le operazioni di intercetto del caicco, in assenza di un effettivo ed efficace monitoraggio radar». Che, però, come abbiamo visto, era impossibile per un difetto tecnico-organizzativo non certo imputabile agli indagati. La guardia costiera è stata, invece, inquisita per la «mancata acquisizione di informazioni necessarie per avere un quadro effettivo di quanto la guardia di finanza stava facendo». Mancanza che avrebbe comportato una «carente valutazione dello scenario operativo e delle conseguenti disposizioni da impartire ai natanti della guardia costiera che pure erano in condizioni di intervenire».
Nondimeno, dalle carte della Procura emerge con assoluta chiarezza che lo «scenario operativo» era tutt’altro che «carente» di analisi. Tutti sapevano, e lo sottolineano gli stessi sostituti procuratori, che le condizioni meteo-marine erano in rapido peggioramento (mare forza 4 e vento forza 7). Il ritardo delle operazioni, che per i pm è la prova di superficialità e inadeguatezza nella trattazione del caso, potrebbe al contrario essere giustificato come misura di sicurezza per evitare ulteriori rischi per soccorritori e migranti. Cautela, non disinteresse. Allo stesso modo è difficile sostenere che le normative nazionali ed europee, richiamate dai pubblici ministeri, rappresentino davvero un modello operativo ideale a cui bisogna tassativamente fare riferimento perché in un’emergenza, quale si rivelerà soltanto con una telefonata alle 4 e 30 del mattino, a quasi sette ore dal primo rilevamento, il coordinamento è complesso e soprattutto basato su risorse e informazioni disponibili solo in quel momento. E le informazioni, lo sappiamo, in quel frangente erano caotiche e frammentarie. Ricostruire tutto ex post è certamente più facile e meno stressante. Infine l’analisi della Procura lega in maniera indissolubile, ma assai poco comprensibile, la presunta condotta negligente degli operatori, e i ritardi che ne sarebbero seguiti, all’affondamento della barca. Dimenticando, però, che a mandare a picco il «Summer love» è una manovra spericolata degli scafisti, a 200 metri dalla riva, su una secca. È la loro virata a provocare il disastro. Un dettaglio che a Crotone pare sia passato quasi inosservato.