Sono sempre più numerosi gli italiani che si trasferiscono al Sud per migliorare finalmente il loro livello di vita e di soddisfazione. «Io sono andato in Puglia, la sintesi della bellezza» dice Alessandro Brunello. Che sul suo viaggio «al contrario» ha scritto un libro di successo.
«Terun», declinato anche nella versione rafforzativa «brut terun», è una parola che evoca il basilico nella vasca da bagno, la valigia di cartone, i turni Fiat, Rocco e i suoi fratelli e Aldo, Giovanni e Giacomo. E poi i riti magici studiati da Ernesto de Martino, Cristo si è fermato a Eboli, l’eterno «Bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è» del principe di Salina. Insomma il «terrunciello» di Diego Abatantuono, topos di un mondo che sembrava in via di estinzione, oggi vive una nuova riscossa. Sempre più spesso si scappa dalle metropoli, si stipano le macchine e via verso il Sud. «Io sono andato in Puglia, la sintesi della bellezza, della cultura e anche delle problematiche mediterranee, una perfetta decadente felicità» racconta Alessandro Brunello nel libro Cambio vita, vado al Sud. Diventare terroni e vivere felici (Salani), appena uscito e già in cima alle classifiche. Un romanzo divertente, un manuale imprescindibile per portare a termine un glorioso «Southshifting».
In un pomeriggio di sole, sullo sfondo del mare di Taranto, l’uomo che ha consegnato acqua a domicilio, è stato buttafuori, comico e autore di Zelig, curatore di mostre, re del crowdfunding («Ancora oggi detengo il record europeo di raccolta fondi»), esperto di finanza tecnologica, spiega come cambiare vita sia possibile. E, cosa incredibile, lui assicura che è proprio così, anche essere felici senza apericene a base di riso e panettone. «A un certo punto uno stato d’animo mediterraneo ha preso il sopravvento ricollocando tutto: bisogni, aspettative, obiettivi. La consapevolezza è salita in superficie, come i gnocchi nell’acqua bollente, gradatamente. Capivo che tante cose me le stavo perdendo soprattutto in termini di tempo e relazioni. Il clic è avvenuto in un momento di grande soddisfazione e visibilità, mentre inauguravo la mostra 2121 alla Permanente, a Milano. Ho pensato che volevo fare altro di me, ero precipitato in un meccanismo che mi tritava velocemente, con poco spazio anche per pensare. Mi stavano strette le Ztl, la finzione delle pseudo-trattorie con i piatti raccontati con uno storytelling disneyano, mi stava sulle scatole gestire il tempo libero inseguito dalla “ralla” ambrosiana, ossia la frenesia da Salone del mobile e sentirmi in colpa se rivolgevo due parole al barista. Preferisco stare dove c’è il caffè sospeso. Il terrone dentro di me non si trovava più con quel modo di fare».
Questo viaggio all’inverso è una tendenza in costante aumento, soprattutto dopo la pandemia. «Amici, nati e vissuti al Nord, mi chiamano per dirmi che si stanno preparando alla svolta. Sta nascendo un movimento. Saranno sempre di più quelli che faranno come me. Certo ho dovuto lasciare qualcosa sul piatto, ma l’ho barattato con altro. Il salto nel buio dal punto di vista economico c’era, ma sono una persona che sa vivere con poco. E poi a Milano si spende un capitale, la Puglia costa molto meno». Polentone perfetto, milanese integrato, come si definisce, è stato il primo a sdoganare Baranzate in tv: «Venivo da quella periferia, accanto a Quarto Oggiaro, emarginata, senza servizi, luogo di microcriminalità e violenza. Era un “block”, compagnie da quaranta ragazzi, la maggior parte finiti male. Mia madre mi iscrisse al liceo classico Parini. Frequentavo la buona borghesia, poi tornavo da dove ero venuto. Mi trovavo bene da entrambe le parti. Ho sempre rifiutato l’epica della thug life, della strada».
Eppure qualcosa deve essergli rimasto dentro, se al momento della scelta ha optato per una città complessa come Taranto. «Sono arrivato nel 2022. Volevo andare sul mare, ma in un luogo che non fosse da cartolina. Con le sue cicatrici e sofferenze, per contaminarmi e contaminare. Volevo vivere in un posto che avesse capacità di rinascere. Taranto sta per risorgere, credetemi, sarò profetico». Prima e unica colonia spartana, ha una storia incredibile, antichissima, perlopiù sconosciuta. Non c’è solo l’Ilva con i capannoni bianchi e i guardrail tinti di rosa, ma uno dei centri storici più belli d’Italia. Sull’Isola, il borgo antico, fino a dieci anni fa terra di spaccio e degrado, oggi si cammina tra palazzi sontuosi, molti abbandonati. Vestigia di un passato millenario. Silenzio e bellezza, portoni ornati da fregi misteriosi, cortili che nascondono scaloni e sale affrescate. «Qui la grande conquista è il tempo, le relazioni, la curiosità, l’attenzione verso gli altri, la cultura per il cibo, il sole. Ti rendi conto perché la filosofia è nata a queste latitudini e non a Casalpusterlengo. Uno studio ha stabilito che si fa sesso il 12 per cento in più. C’è meno stress. La gente ti parla, anche se non ti conosce. A Milano con i tuoi vicini dopo vent’anni le uniche parole scambiate sono: “A che piano scende?”».
In questa turbinante felicità mediterranea, non le sovviene mai la nostalgia canaglia? «Milano mi piace e mi piacerà per sempre. È la città dei sogni, dove la carne incontra l’innovazione. È la prima linea, il posto dove qualsiasi cosa immagini in un’ora puoi farlo. Qui non c’è questa efficienza. Eppure di quella vita non mi manca nulla». Ha venduto la moto e comprato una barca. Ma, attenzione, anche se in questo magico mondo da fiction di Rai Uno tutti sembrano accettarti a braccia aperte, ci sono prove da superare per le quali ci vuole un fisico bestiale. Il matrimonio a fine luglio. Lista invitati ridotta all’osso: 300 persone. «Un happening totalizzante, se lo superi ti cambierà per sempre». È il se a preoccuparci. Bisogna reggere dalla funzione mattutina alla grande abbuffata fino a notte inoltrata. «I tre primi sfiorano il consumo di carboidrati pro capite annuo di un piemontese adulto» ride l’autore.
In misura ridotta, ma altrettanto consistente, c’è il pranzo della domenica osannato anche dal New York Times. Dove se ti azzardi a non fare il bis rischi di brutto. Qui si frigge anche l’aria, ma se sopravvivi, allora puoi iniziare la tua vita da terrone. Il dubbio che ci attanaglia è lecito: il modello Nord è fallito? «Sì, e cominciamo a rendercene conto. Basta osservare lo sguardo dei pensionati milanesi che attraversano sulle strisce, soli, senza nessuno che li aiuti, con la paura di chi hanno a fianco, per capire che il modello iper industrializzato è finito. Dobbiamo iniziare a chiederci se siamo davvero fatti per vivere in metropoli da milioni di abitanti. Io sono sceso dalla giostra, e, dopo un piccolo sfasamento iniziale, ho visto quanto orizzonte stavo perdendo. Non ho dati certi per dirlo, ma sono più felici i bambini che vivono nei palazzi con le facciate squasciate, rispetto a quelli che giocano nei parchetti liofilizzati di CityLife. Oggi tutto è green, ma noi siamo diventati artificiali». Non si cade troppo nella retorica da Benvenuti al Sud? «I problemi esistono. C’è un classismo più evidente, esibito, che al Nord non esiste. Poca meritocrazia e minor senso civico. Servizi scarsi e infrastrutture insufficienti. In compenso c’è la “controra”. Dall’una alle cinque del pomeriggio tapparelle a mezz’asta. Una passeggiata con i miei cani al mare. Un’altra vita».