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Il motore dell’economia vuole petrolio

Il motore dell’economia    vuole petrolio

I colossi energetici globali puntano ancora (e molto) sulle fonti fossili, trovando nuovi giacimenti. E i «sogni green» dell’Europa possono aspettare.


Mentre l’Europa persiste nella sua utopia di una decarbonizzazione a tappe forzate, i colossi del petrolio credono ancora che la fine delle fonti fossili appartenga al libro dei sogni di Bruxelles. E vanno avanti per la loro strada. Nel mondo energetico si è creata una divaricazione tra le politiche perseguite dalle istituzioni internazionali, piene di buoni propositi sul salvataggio del pianeta, e la realtà dell’economia mondiale che per marciare, creare sviluppo, migliorare le condizioni di vita, ha ancora bisogno di petrolio e gas e quindi occorre sempre cercarli e estrarli. Riflette Alberto Clò, economista, autorevole studioso del mondo energetico: «L’Europa si trova schiacciata tra il fronte orientale con la guerra ucraina che ha ripercussioni sulle forniture di gas, e il sud dalla guerra mediorientale che ci dice quanto conta ancora il petrolio. Bruxelles finge di non accorgersi delle criticità sugli approvvigionamenti energetici. Dopo il 7 ottobre il gas è salito fino al 50 per cento in più e questo si ripercuoterà sui costi finali di energia elettrica e gas, fino ai prezzi tutelati».

Di questa situazione sono ben consapevoli i colossi petroliferi che continuano ad avere come core business l’oil&gas dai quali ricavano la percentuale maggiore di profitti. Si spiega così la mega acquisizione da parte di Exxon Mobil della concorrente Pioneer Natural Resources. La fusione, del valore di 59,5 miliardi di dollari, pone il produttore statunitense di petrolio e gas al vertice del più grande giacimento degli Stati Uniti. A stretto giro si è mosso Chevron, gigante californiano che ha acquisito Hess, in una transazione interamente azionaria del valore di 53 miliardi di dollari. Con tale operazione la produzione di Chevron aumenterà di oltre il 10 per cento. L’azienda californiana nel secondo trimestre ha ricavato quasi 3 milioni di barili di petrolio al giorno, mentre la produzione di Hess è arrivata nello stesso periodo a 387 mila. Quest’ultimo è inoltre molto attivo in Guyana, dove ha una partecipazione del 30 per cento in una società di esplorazione petrolifera, e si stima che nel 2024 giungerà a 480 mila barili al giorno. Negli ultimi quattro anni Exxon e Hess hanno fatto oltre 30 scoperte nello stato sudamericano e Hess nel 2023 ha individuato un grosso giacimento nel Golfo del Messico. Due operazioni che non si vedevano da oltre vent’anni e, paradosso, proprio quando la campagna sulle rinnovabili sta spingendo. E non sarebbero le uniche. La Reuters ha scritto che il produttore di gas Chesapeake Energy starebbe valutando di acquisire Southwestern Energy. I colossi a stelle e strisce sono convinti che la richiesta di combustibili fossili rimarrà alta a lungo. Ed è quanto dice l’Opec nel World Oil Outlook 2023. La domanda globale raggiungerà i 116 milioni di barili al giorno entro il 2045 (nel 2022 erano 99,6). Nel 2028, si dovrebbe arrivare a 110,2 milioni di barili al giorno, cioè +10,6 milioni rispetto al 2022. Peraltro è uno scenario prudente, da rimettere in discussione dovesse accelerare la crescita economica di India, Cina, Africa e Medioriente.

Il segretario generale dell’Opec Haitham al-Ghais invita l’Europa a un bagno di realismo. «Le richieste di fermare gli investimenti in nuovi progetti petroliferi sono fuorvianti e potrebbero portare al caos energetico ed economico». L’Opec sostiene che per soddisfare le previsioni sulla domanda a lungo termine sarebbero necessari investimenti nel settore petrolifero pari a 14 trilioni di dollari, ovvero circa 610 miliardi in media all’anno. Di segno diverso è lo scenario tracciato dall’Aie, l’Agenzia internazionale per l’energia, convinta sostenitrice che siamo «all’inizio della fine» dell’era dei combustibili fossili. Secondo le sue previsioni la domanda di carbone, petrolio e gas toccherà il picco prima del 2030 e il consumo di fonti tradizionali diminuirà con l’entrata in vigore delle politiche climatiche. Ma siccome si è ancora lontani dall’obiettivo di abbassare il riscaldamento del pianeta di 1,5 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali, bisogna fare di più. Un’altra conferma di come si muove il settore viene da un rapporto di Greenpeace: nel 2022 solo lo 0,3 per cento della produzione di 12 dei principali fornitori europei di combustibili fossili proveniva da fonti rinnovabili. Lo scorso anno, circa il 7,3 per cento (cioè 7,1 miliardi di dollari) degli investimenti delle aziende sondate è stato destinato verso questo tipo di energia, mentre ben 88,15 miliardi di dollari di finanziamenti sono andati a operazioni sui combustibili fossili.

A marzo scorso, l’amministrazione statunitense guidata da Joe Biden, che pure parla tanto di rispetto dell’ambiente, ha approvato il progetto petrolifero Willow della ConocoPhillips che prevede trivellazioni in tre siti nella National Petroleum Reserve, in Alaska, per arrivare a estrarre 629 milioni di barili di greggio nei prossimi 30 anni. I gruppi statunitensi seguono ancora la strategia «oil first». La Norvegia, il più importante Paese produttore di petrolio e gas d’Europa, continua a cercare nuovi giacimenti. Quest’anno saranno perforati 35 pozzi esplorativi che nel 2024 arriveranno a 36. Jez Averty, vicepresidente senior di Equinor per le risorse sotterranee, ha precisato che la strategia della major è «assicurarci che la piattaforma continentale norvegese abbia le ultime gocce, gli ultimi barili per sopravvivere alla competizione». Il Paese scandinavo, anche se destina importanti fondi allo sviluppo delle rinnovabili e ha le potenzialità per non utilizzare i combustibili fossili, continua con grande realismo nella ricerca di giacimenti marini. Gli investimenti nell’industria norvegese di oil & gas nel mare del Nord quest’anno raggiungeranno la cifra record di 21 miliardi di dollari. Il settore petrolifero contribuisce per circa il 40 per cento delle esportazioni del Paese e per il 14 per cento del suo Pil. Sarebbe sconsiderato rinunciarvi.

Gli analisti di Scope Ratings tracciano questo scenario: «I gruppi europei stanno scegliendo strade diverse perché non esiste consenso su quando il passaggio ai combustibili a basse emissioni inizierà a ridurre la domanda globale di petrolio. L’Agenzia internazionale per l’energia si aspetta che ciò accada entro il 2030, l’Opec dopo il 2035, la US Energy Information Administration addirittura non prima del 2050. Così i gruppi integrati dell’oil & gas si stanno adattando al petrolio». Eni ha annunciato il 2 ottobre scorso un’importante scoperta di gas effettuata dal pozzo Geng North-1 perforato nella licenza North Ganal, a circa 85 chilometri di distanza dalla costa orientale del Kalimantan, in Indonesia. Secondo le stime preliminari, sono stati individuati volumi complessivi pari a 5 mila miliardi di piedi cubi di gas. Sempre Eni ha stipulato con QatarEnergy LNG NFE un contratto record della durata di 27 anni, dal 2026 al 2053. La fornitura, fino a 1,5 miliardi di metri cubi anno, andranno al rigassificatore di Piombino. L’azienda italiana ha scelto un approccio «multi-energia» con investimenti sia nei fossili sia nelle rinnovabili. Qualche compagnia si è lasciata affascinare da spericolati obiettivi green per poi fare marcia indietro. La britannica Bp nel 2020 aveva dichiarato come obiettivo di diventare «net zero», abbattendo completamente le emissioni entro il 2050; salvo poi, a febbraio 2023, innestare la retromarcia, annunciando maggiori investimenti in petrolio e gas dopo i risultati record del settore nei due anni precedenti.

Spetta ad Alberto Clò la sintesi: «L’Europa sembra indifferente a quanto sta accadendo, nella convinzione che le rinnovabili siano la panacea di tutti i mali. Gas e petrolio rappresentano oltre il 50 per cento dei consumi energetici e sono fattori critici che si ripercuoteranno sui prezzi finali e sull’inflazione. Ci si dimentica che dal 2005 sono stati investiti seimila miliardi nelle rinnovabili che rappresentano meno del 5 per cento dei consumi energetici totali, mentre i fossili costituiscono ancora l’82 per cento del fabbisogno. Occorre realismo per non continuare a farci del male».

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