È il nome che Stellantis pensava per il suo nuovo modello nato in Polonia. Poi… Puro Italian sounding e definitiva mutazione di un produttore di auto.
C’era una volta (e purtroppo c’è ancora) il Parmesan, falso Parmigiano Reggiano in vendita in tutto il mondo, dagli Usa all’Australia con le sue numerose declinazioni: parmesao, parmesano o regianito. C’erano una volta (e purtroppo ci sono ancora) il cambozola (gorgonzola al sapor di crauti), l’asiago del Wisconsin, la robiola di Roccaverano made in Canada, il Chianti doc dell’Argentina, il salame calabrese prodotto in Canada e persino il tradizionale aceto balsamico di Modena venduto in Florida con il marchio White Balsamic Blush Vinegar, cioè autentico «aceto balsamico bianco al lampone rosato». Tutta roba che sta agli autentici prodotti italiani più o meno come la bigiotteria di una bancarella ai gioielli della regina. Ora la lista si allunga: abbiamo anche l’auto «Milano» che viene prodotta in Polonia.La Fiat l’ha annunciata così. Poi sono scoppiate le polemiche e ha cambiato nome. Ma senza riuscire a allontanare i sospetti del tentativo di inganno. Italian sounding allo stato puro.
Si parla molto in queste ultime settimane degli eredi Agnelli e del futuro della loro Stellantis in Italia. Ci sono stati scioperi, comunicati, lettere agli azionisti, proteste e polemiche a non finire. Ma forse si è riflettuto poco su questo aspetto, che invece non è sfuggito all’occhio attento del nume tutelare: noi stiamo perdendo un bene tradizionale dell’Italia, un nostro patrimonio storico, quello dell’automobile. E lo stiamo perdendo perché, lo dico nel modo più chiaro possibile, abbiamo continuato a fare gli interessi non del nostro Paese ma di una famiglia, quella appunto degli Agnelli, che ha sempre usato lo Stato italiano come un taxi senza tassametro. Un taxi, per altro, che con l’ultimo viaggio li ha portati, ricchi e felici, all’estero.
Dal 1975 i contribuenti italiani hanno generosamente donato a questi signori 220 miliardi di euro. In cambio che cosa hanno ottenuto? Nel 1989 la Fiat produceva 1,9 milioni di auto in Italia oggi Stellantis arriva a malapena a 500 mila. I dipendenti erano 117 mila, oggi 43 mila. Hanno chiuso l’Alfa di Arese, Termini Imerese, il pure futuro di Mirafiori è incerto tanto che nei giorni scorsi, dopo tanti anni, operai e quadri sono scesi in piazza, 12 mila persone in corteo per chiedere conto del disastro in corso. Ma, si badi bene, è un disastro «soltanto» (si fa per dire) industriale. È un disastro di beni prodotti e di posti di lavoro. Dal punto di vista finanziario, invece, va a gonfie vele. Mentre gli operai andavano in piazza a Torino, John Elkann annunciava utili per quattro miliardi di euro, con una cedola per la famiglia da oltre 50 milioni di euro.
Sull’ultimo numero del mensile Millennium Giorgio Airaudo ha ricordato come nel 2020 gli eredi Agnelli abbiano incassato sussidi per 6,3 miliardi di euro, tutti dalle tasche degli italiani. L’anno successivo con la nascita di Stellantis i soci hanno incassato 2,9 miliardi di euro. Tutti finiti nelle loro tasche private. Fabbriche vuote e tasche piene. O meglio: tasche vuote (di contribuenti e lavoratori) e tasche piene (dei giovani Agnelli). E chi garantisce il guadagno, è ovvio viene premiato: l’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, un giorno minaccia la chiusura degli impianti in Italia, l’altro incassa la sua giusta (si fa per dire) mercede: 36,5 milioni di euro lordi, con un aumento del 56 per cento rispetto all’ultimo anno. Si capisce, no? Quando la produzione cala, le fabbriche restano chiuse, c’è la cassa integrazione e gli operai scioperano, non vuoi dare un bel riconoscimento al manager che realizza tutto ciò?
Ora gli Elkann chiedono nuovi incentivi, come se non fossero bastati quelli che hanno ricevuto. E la cosa interessante, però, è che gli incentivi per le auto andrebbero nelle tasche di chi non è più concentrato sulla produzione di auto. Infatti l’ex Fiat non solo non è più italiana (è un gruppo franco-olandese), ma ha anche la testa rivolta altrove: è stato lo stesso John, nipotino prediletto dell’Avvocato, ad annunciare altri massicci investimenti (quattro miliardi) nella sanità privata, nuovo campo di interesse degli ex produttori di auto che non a caso qui in Italia comprano cliniche su cliniche. Pensateci, è un cortocircuito paradossale: lo Stato italiano non investe in sanità pubblica ma dà incentivi per produrre auto agli Agnelli che però non producono auto ma fanno affari sullo sfascio della sanità pubblica. Bingo.
In tutto questo, però, come si diceva non vanno a perdersi soltanto posti di lavoro (che pure non è poco): va a perdersi un nostro patrimonio. Un patrimonio italiano. Pensateci: la Fiat aveva l’Italia nel suo nome (Fabbrica Italiana Automobili Torino). Si capisce: far sapere che le auto si producevano qui era un valore aggiunto. Siamo il Paese di Ferrari, Lamborghini, Alfa Romeo, Maserati… Abbiamo fatto la storia dei motori, ma adesso i motori si fermano. In Spagna ci sono sette case automobilistiche, in Francia e Germania sei. In Italia ce n’è una sola che però si concentra sulla sanità, chiude fabbriche in Italia, produce in Polonia e poi annuncia (prima di essere costretta al dietrofront) che l’auto prodotta in Polonia si chiamerà «Milano». A pensarci erano meglio il parmesan e il cambozola.