Wuhan. Cronaca     (plausibile) di un’infezione
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Inchieste

Wuhan. Cronaca (plausibile) di un’infezione

Un’inchiesta del Sunday Times ricostruisce le tappe che avrebbero portato alla diffusione del Covid-19. E tutto, sostiene il reportage, punta sul laboratorio cinese gestito, più che da scienziati, da apprendisti stregoni. Finiti, grazie al fatale supporto di Pechino, col cambiare il mondo.

Il laboratorio di Wuhan e l’esercito cinese avrebbero lavorato, fin dal 2016, a una variante killer del coronavirus. Una variante che, se si incastrano i pochi pezzi del puzzle oggi a disposizione, sembra assomigliare pericolosamente al Covid-19. È la conclusione cui arriva un lungo e dettagliatissimo reportage dei giornalisti Jonathan Calvert e George Arbuthnott pubblicato sul Sunday Times, settimanale britannico specializzato in inchieste d’attualità.

Analizzando fonti riservate, mail e brogliacci di intercettazioni dell’intelligence americana, il longform ricostruisce le tappe che, nel giro di 20 anni, avrebbero portato il centro studi della metropoli cinese a diventare un’oscura officina degli orrori in mano ad apprendisti stregoni in camice bianco.

Nel 2003 Wuhan comincia a indagare le origini della Sars, malattia respiratoria esplosa in estremo Oriente agli inizi del nuovo millennio, attirando importanti finanziamenti di un ente di beneficenza statunitense con sede a New York e diretto da un esperto di zoologia. Con i dollari americani, gli scienziati di Pechino si avventurano, scrive il Sunday Times, in «esperimenti sempre più rischiosi su coronavirus raccolti nelle caverne di pipistrelli nel sud della Cina», giustificando tali spericolate manovre come un «aiuto alla scienza per sviluppare nuovi vaccini».

Nel 2012, in una grotta chiamata Shitou, nelle remote montagne della provincia dello Yunnan, nella Cina meridionale, gli scienziati di Wuhan si imbattono in due virus sconosciuti: uno molto simile a quello della Sars, etichettato col nome di Wiv1, e un altro battezzato, invece, Shc014. Dopo anni di analisi e approfondimenti, i ricercatori riescono a dimostrare che Wiv1 è in grado di infettare le cellula umane.

Nel 2015 viene pubblicato uno studio sulla combinazione del virus della Sars con Shc014. Risultato: l’agente patogeno è un «potenziale killer di massa». I giornalisti inglesi scrivono che «ha causato gravi danni ai polmoni in topi “umanizzati” dimostrandosi resistente ai vaccini sviluppati per la Sars».

I risultati dell’analisi sconvolgono il mondo scientifico. «Se il virus fosse scappato, nessuno avrebbe potuto prevederne la traiettoria» avverte Simon Wain-Hobson, un virologo dell’Istituto Pasteur di Parigi. E un altro luminare della microbiologia, Richard Ebright, docente di chimica e biologia presso la Rutgers University (New Jersey), bolla quella di Wuhan come «la ricerca di gran lunga più spericolata e pericolosa su coronavirus - o addirittura su qualsiasi virus - mai intrapresa».

Lo scenario si evolve poi in direzione imprevista quattro anni più tardi, nel 2016, quando i ricercatori cinesi trovano un terzo tipo di coronavirus, stavolta in una miniera di rame a Mojiang, sempre nello Yunnan, dove alcuni minatori erano morti per sintomi simili alla Sars.

Invece di avvertire la comunità scientifica internazionale, le autorità di Pechino insabbiano i decessi e classificano come top secret l’inchiesta. Quei germi, si scoprirà poi, sono oggi riconosciuti come i membri più prossimi alla famiglia del Covid-19. È il momento in cui la politica soppianta la scienza e le tracce iniziano a sparire. Fonti dei servizi segreti americani, interrogate dai giornalisti, si dicono convinte che il regime rosso abbia apposto il segreto militare sui quei coronavirus da un lato per «farne potenziali armi biologiche» e dall’altro per «sviluppare nuovi vaccini».

Quello iniziato a Wuhan, nel 2016, sarebbe stato dunque un programma riservato per «rendere i virus della miniera più infettivi per l’uomo». E sempre le stesse fonti sospettano che i microbi di Mojiang siano state la base di partenza per la creazione del virus Covid-19, dilagato a Wuhan «dopo un incidente di laboratorio».

Ci sarebbero infatti prove - che però non vengono elencate nel lungo reportage del Sunday Times - che i ricercatori impegnati sui germi della miniera siano stati portati in ospedale con sintomi simili al Covid-19 nel novembre 2019, un «mese prima che l’Occidente venisse a conoscenza della pandemia». Mentre tanti altri, di età compresa tra i 30 e i 40 anni, cominciavano ad accusare sintomi di influenza acuta.

Le maglie del controllo del regime, nel frattempo, si infittiscono. Il giornale inglese riporta la storia di una zoologa, esperta di pipistrelli, di nome Alice Hughes - che aveva lavorato nel laboratorio di Wuhan prendendo parte alle spedizioni nello Yunnan - cui viene impedito di parlare coi media delle sue scoperte sulla letalità dei coronavirus. L’intelligence del Dragone la metterà sotto strettissima sorveglianza, tanto che dovrà abbandonare la Cina per rifugiarsi a Hong Kong.

Nel 2018 l’ambasciata americana a Pechino decide di inviare una équipe di esperti a Wuhan per ispezionare l’istituto. Quel che emerge dai dispacci diplomatici americani è allarmante, come confermeranno fonti dell’Amministrazione al Washington Post. Viene riscontrata «una grave carenza di tecnici e di esperti adeguatamente formati per gestire in sicurezza il laboratorio». Incuranti dei rischi, gli scienziati cinesi proseguono a manipolare le sequenze genetiche dei coronavirus. Il settimanale britannico ricostruisce un esperimento realizzato sui germi della grotta Shitou che vengono miscelati ai patogeni della Sars. Ne nasce un «mostro» che non solo è resistente ai vaccini ma può attaccare l’uomo in forma grave.

Le ricostruzioni certe si fermano però qui. Che cosa sia accaduto dopo è (quasi) impossibile ricostruirlo. Di certo le autorità americane vengono tenute all’oscuro di un piano segreto che punta a creare un nuovo tipo di coronavirus diverso da tutti gli altri. Per questo i fondi provenienti dagli Stati Uniti vengono sostituiti con quelli delle forze armate cinesi.

Secondo quanto riporta il Sunday Times, Steven Quay, uno scienziato statunitense, ritiene che il Covid-19 sia stato «creato inserendo una “fenditura di furina” in uno dei virus della miniera», poi fatto evolvere nei «topi “umanizzati”» attraverso un processo infettivo in più fasi. Come spiegato dallo stesso Quay in un’audizione al Senato Usa, il meccanismo della progressione rafforza la carica virale e la pericolosità del virus a ogni nuova infezione fino a trasformarlo in un patogeno in grado di «ammazzare ogni topo “umanizzato”».

Il che spiegherebbe perché, dall’inizio dell’epidemia, il virus pandemico era così «straordinariamente ben adattato a infettare l’uomo». Un’ipotesi che sembrerebbe dar ragione all’allora presidente americano, Donald Trump, protagonista di durissimi scontri con il suo consulente, l’immunologo Anthony Fauci, sull’origine artificiale del virus.

Arriviamo agli inizi del 2020, quando la pandemia travolge il pianeta. Le autorità cinesi s’inventano la storia del mercato di carcasse di animali di Wuhan additando come unici colpevoli i pipistrelli destinati al consumo umano. Omettendo però il particolare che i primissimi casi di Sars Cov2 si registrano in un isolato a pochi passi dal laboratorio e non nella fiera all’aperto che dista un paio di miglia. Dettagli che in un processo indiziario possono diventare determinanti.

Come la circostanza che un genetista di nome Zhou Yusen, molto vicino all’esercito cinese, che aveva collaborato ai test sui coronavirus già nel febbraio 2020 (quindi due mesi dopo che la Cina ha dovuto ammettere l’esistenza della patologia) brevetta un vaccino contro il Covid-19. Una tempistica sospetta che ha spinto l’esperto immunologo Usa, Robert Kadlec, a concludere che «la squadra di Zhou era al lavoro sul vaccino già da novembre 2019, proprio all’inizio della pandemia». Una coincidenza che non può essere frutto del caso. Più logico pensare che il laboratorio di Wuhan stesse lavorando alla creazione del veleno e al suo antidoto. Zhou non riuscirà tuttavia a godere dei risultati commerciali della sua invenzione. A 54 anni, tre mesi dopo il deposito del brevetto, muore. Cadendo, pare, dal tetto dell’istituto di Wuhan.

L’ennesima ombra cinese.

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Simone Di Meo