Tutte le carte nelle mani di Trump sui riconteggi
Il controverso esito delle ultime presidenziali americane ha portato Donald Trump ad annunciare battaglia legale su più fronti. Se in alcuni casi abbiamo dei parziali precedenti a cui rifarci, in altri si prospettano invece dei terreni quasi del tutto inesplorati.
In primis, troviamo la questione dei riconteggi, che il comitato elettorale del presidente ha chiesto in alcuni Stati. La Georgia (Stato ancora in bilico, dove Biden è avanti di circa 14.000 voti) ha già annunciato che decreterà un riconteggio a mano: il locale segretario di Stato, il repubblicano Brad Raffensperger, ha reso noto che il processo dovrebbe iniziare alla fine di questa settimana e che terminerà entro il 20 novembre. Più che per soddisfare una richiesta del presidente, Raffensperger ha spiegato mercoledì di aver imboccato questa strada a causa dello scarto troppo risicato: del resto, la legge della Georgia prevede la possibilità di chiedere un riconteggio se il divario tra due candidati sia inferiore allo 0,5%: attualmente, secondo Cnn, il vantaggio di Biden in loco è dello 0,3%. Il comitato di Trump punta molto su questo riconteggio, nella speranza di riuscire a ribaltare la situazione in un'area che mette in palio ben 16 grandi elettori. È in tal senso che l'entourage del presidente ha chiesto una nuova conta dei voti anche in Wisconsin: Stato che la Cnn ha assegnato a Biden con un margine di vantaggio dello 0,6%. Come riferito dalla National Public Radio, sarà probabilmente Trump a doversi sobbarcare i costi del riconteggio, perché in Wisconsin le spese sono a carico dello Stato solo in caso di margini pari o inferiori allo 0,25%. Ricordiamo che non è la prima volta nella storia elettorale americana che viene chiesta una nuova conta dei voti alle presidenziali. Non solo nel 2016 venne per esempio effettuata in Nevada e nello stesso Wisconsin, ma il contenzioso più noto è quello del 2000, quando – nella disfida tra George W. Bush e Al Gore – furono avviate operazioni di riconteggio nello Stato della Florida (dove la differenza tra i due contendenti era dello 0,06%). Alla fine di novembre del 2000, l'allora presidente uscente Bill Clinton (di cui Gore era vice) emise un comunicato, dichiarando che le operazioni di transizione presidenziale non sarebbero iniziate prima che la revisione non fosse stata condotta a termine.
L'altro fronte di scontro riguarda invece la controversa regola della Pennsylvania che ha consentito l'arrivo dei voti postali fino al 6 novembre: tre giorni dopo, cioè, l'Election day. Nonostante la norma fosse stata avallata dalla Corte Suprema della Pennsylvania (che – ricordiamolo – è a schiacciante maggioranza democratica), i repubblicani avevano portato la questione fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, sostenendo che – in base alla Costituzione – sono i parlamenti statali e non le corti a dover stabilire i regolamenti per le elezioni. Tuttavia, lo scorso ottobre, il massimo organo giudiziario americano si è spaccato in due, con quattro giudici favorevoli alla norma e quattro contrari. Adesso, il comitato elettorale di Trump spera in un pronunciamento favorevole, visto che – nel frattempo – è entrata pienamente in carica la nuova giudice, Amy Coney Barrett. Per il momento, il presidente ha ottenuto una parziale vittoria, dopo che – alcuni giorni fa – il giudice, Samuel Alito, ha ordinato alla Pennsylvania di separare temporaneamente i voti arrivati dopo il 3 novembre, in attesa che la Corte Suprema si esprima di nuovo sulla questione. Non è chiaro se una (non improbabile) sentenza favorevole possa ribaltare il risultato elettorale. Sono infatti molti a sostenere che l'annullamento dei voti pervenuti dopo il 3 non sarebbe sufficiente per attribuire la Pennsylvania a Trump. Resta tuttavia il fatto che, al di là della matematica elettorale, un pronunciamento favorevole potrebbe tramutarsi in una vittoria politica per Trump: una vittoria che rafforzerebbe la sua posizione non soltanto nello scontro con Biden ma anche all'interno dello stesso Partito Repubblicano.
Molto più aggrovigliata è invece la situazione in riferimento agli altri ricorsi legali. Un giudice nei giorni scorsi ha concesso ad osservatori del comitato di Trump di monitorare maggiormente da vicino le operazioni di spoglio in Pennsylvania. Un ricorso simile presentato in Michigan è invece stato respinto, con la motivazione che il presidente non avrebbe fornito prove del fatto che i suoi osservatori sarebbero stati esclusi dal monitoraggio dello spoglio. Bocciata è stata anche una causa intentata in Georgia, dove il comitato di Trump aveva affermato che fossero state indebitamente conteggiate delle schede arrivate dopo il 3 novembre. Brutte notizie per il presidente anche in Nevada: qui una corte ha respinto la richiesta di bloccare lo spoglio, sostenendo non vi siano prove delle irregolarità di cui parlano i repubblicani. Nello stesso Stato, c'è tuttavia un'altra causa pendente, con il comitato di Trump che sostiene abbiano illegalmente votato molti cittadini non residenti. Altri fronti legali sono poi presenti in Arizona, dove – secondo i repubblicani – il voto di numerosi elettori sarebbe stato indebitamente respinto nella contea di Maricopa. Proprio l'Arizona è del resto fortemente sotto esame da parte dell'elefantino, visto che lo svantaggio in loco di Trump si è ridotto allo 0,3%.
Il comitato del presidente – martedì scorso – ha intentato una nuova causa in Michigan (dove il vantaggio di Biden è dello 0,6%), sostenendo che vi siano irregolarità e problemi nel conteggio dei voti postali: il tutto corredato – secondo Detroit News – da duecentotrenta pagine di dichiarazioni giurate. In particolare, Trump ha puntato il dito contro un guasto al software verificatosi nella contea di Antrim: quest'area era stata in un primo momento erroneamente attribuita a Biden, per poi essere invece data a Trump. I repubblicani sostengono che altre 47 contee facciano ricorso allo stesso software e che potrebbero quindi esserci altri casi similari. Il segretario di Stato del Michigan, la democratica Jocelyn Benson, ha replicato, dicendo di essere "fiduciosa" nel fatto che i problemi di Antrim fossero dovuti a un "errore umano". Tutto questo, senza comunque dimenticare che, secondo Detroit News, l'area di Detroit abbia riscontrato problemi di spoglio elettorale per circa quindici anni.
Più in generale, un recente sondaggio di Morning Consult ha rivelato che il 70% degli elettori repubblicani ritenga che le elezioni non si siano svolte in modo equo: un incremento notevole, rispetto al periodo antecedente al 3 novembre, quando appena il 35% dei repubblicani si esprimeva in questo modo. Di contro, il 90% dei democratici si dice oggi convinto dell'integrità del sistema, mentre – fino al 3 novembre – soltanto il 52% di costoro affermava altrettanto. Una domanda che quindi sorge è: Trump spera davvero in un ribaltamento dell'esito elettorale con queste cause? Non è chiaro. Quello che vale la pena sottolineare sono tuttavia alcuni segnali non indifferenti. Innanzitutto è bene considerare come, negli ultimi giorni, il Partito repubblicano si sia parzialmente ricompattato attorno al presidente: basti pensare alle dure parole espresse di recente dal segretario di Stato, Mike Pompeo. In secondo luogo, ottenere eventualmente alcune vittorie legali (a partire dalla Pennsylvania) potrebbe rafforzare Trump politicamente all'interno dell'elefantino: un elemento che potrebbe consentirgli o di ricandidarsi senza troppe opposizioni alla nomination repubblicana nel 2024 o di tirar la volata a qualche altra figura tra quattro anni (si parla per esempio dello stesso Pompeo, della figlia Ivanka, del vicepresidente Mike Pence o del giornalista di Fox News Tucker Carlson). Tutto questo, senza trascurare che alcune eventuali vittorie legali potrebbero aiutare Trump a gettare una luce di illegittimità sulla vittoria di Biden, minando così machiavellicamente la stabilità della sua azione di governo.