​Dalai Lama, Tibet
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Perché il dopo Dalai Lama aprirà una crisi geopolitica

Alle presidenziali statunitensi non mancano che pochi mesi, ma la pax americana già da tempo fa i conti con gli echi degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando Washington affermò il proprio primato globale. Su queste colonne abbiamo già trattato dell’Egitto di Nasser, assecondato dagli americani con l’intento di staccare la spina una volta per tutte a Inghilterra e Francia, e di come si sono poi ricomposti gli equilibri all’interno dell’Occidente. Anche più a Oriente, negli stessi anni, non mancarono forti scosse di assestamento geopolitico, i cui effetti si avvertono ancora oggi. La Cina ormai maoista ebbe per esempio gioco facile ad annettere il Tibet nel 1951 anche perché gli americani non vollero assecondare gli inglesi, pronti a sostenere le forze tibetane. Niente da fare: erano, quelli, gli anni in cui l’imperativo americano era quello di sostituire l’impero britannico, e la stessa India, imponente vicino di casa, aveva da poco conquistato l’indipendenza da Londra.

Tuttavia risalgono proprio a quel periodo diversi nodi che a breve verranno al pettine e richiederanno soprattutto ad americani e indiani di collaborare strettamente. Un dossier particolarmente delicato è quello del buddhismo tibetano, la cui massima autorità spirituale, il Dalai Lama Tenzin Gyatso, compie 89 anni il 6 luglio e necessita di frequenti cure mediche. È stato scelto nel 1937, quando aveva due anni, ed è sempre stato una spina nel fianco del Partito comunista cinese sin dall’annessione del Tibet da parte della Cina. Con la sua incessante adesione alla non violenza, il Dalai Lama, che ha vinto il Premio Nobel per la Pace nel 1989, incarna la resistenza tibetana all’occupazione cinese. Nelle sue passate incarnazioni, non era solo il leader spirituale del Tibet, ma anche quellor politico. Nel 2011, però, ha ceduto il suo ruolo politico al governo tibetano in esilio, eletto democraticamente ogni cinque anni dai rifugiati tibetani che vivono in India e altrove. La rinuncia al ruolo politico da parte del Dalai Lama, tuttavia, non ha affatto attenuato l’attenzione per la sua successione.

Ad attendere la sua morte è la Cina, che ha lavorato a un piano di successione che consenta a Pechino di tenere sotto schiaffo la popolazione tibetana. Per i vertici cinesi le credenze religiose debbono essere condizionate, strettamente regolate da Pechino, ma non obliterate. La religione, insomma, è vista come instrumentum regni subalterno al potere politico, e preferita all’ateismo. Ovviamente questa visione fa a pugni con il sentimento di fede dei tibetani, per i quali il Dalai Lama è l’incarnazione vivente del Buddha e non un lacché di Pechino. Dal 1391 si è reincarnato 13 volte. Quando un Maestro supremo del buddhismo tibetano muore, inizia la ricerca del successivo, con un consiglio di discepoli anziani che si assume la responsabilità di identificarlo, sulla base di segni e visioni.

Negli ultimi anni, però, il regime cinese ha insistito sul fatto che solo Pechino ha il diritto di identificare il prossimo Dalai Lama. Non sarebbe la prima volta che il Dragone ne sceglie uno. Nel 1995 ha consacrato il proprio Panchen Lama, la cui autorità spirituale è seconda solo a quella del Dalai Lama, dopo aver rapito il vero Panchen Lama, un bambino di sei anni che oggi, dopo tre decenni di cattività, è tra i prigionieri politici più longevi al mondo. C’è dell’altro: Pechino ha nominato anche il Karmapa, il terzo leader spirituale più importante del buddhismo tibetano e capo della setta Karma Kagyu. Nel 1999 il suo successore designato, Ogyen Trinley Dorje, fuggì in India. La facilità con cui il quattordicenne Karmapa era riuscito a fuggire dalla Cina destò tuttavia i sospetti degli indiani, che nel 2018 scelsero di non riconoscere più il Karmapa nominato dal Dragone come capo legittimo della sua setta. In breve: i cinesi hanno piazzato le proprie pedine ovunque, e il più in alto possibile. Anche per questo, Tenzin Gyatso ha già reso noto che potrebbe scegliere di non rinascere. Dopotutto, per Pechino, un Dalai Lama docile e devoto al Partito comunista è di gran lunga più utile di un Dalai Lama inesistente.

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Francesco Galietti