Come un salmone tinto di tricolore
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Politica

Come un salmone tinto di tricolore

Un’italiana era felice in Canada. Ma, alla maniera del pesce che risale le correnti, è voluta tornare. Per provare a cambiare il suo Paese.


Ogni tanto viene voglia di arrendersi. Ogni tanto viene voglia di girare la testa dall’altra parte. Perché continuare a denunciare, a lottare, a farsi venire il mal di fegato? Ogni tanto, ammettetelo, anche voi pensate che non ci sia speranza. Che siamo condannati all’eterno ripetersi degli stessi guai, incastrati negli stessi problemi, destinati ad arrotarci all’infinito dentro disastri che nessuno fa niente per evitare, anche quando sarebbe possibile. Ogni tanto viene voglia di fuggire lontano. Di sparire. Di evaporare. Ed è allora, in quel preciso momento, allo zenit della rassegnazione, al culmine dello scoramento, che bisogna prendere in mano la lettera di Chiara. Leggerla e rileggerla. Forse non riuscirà a cambiare questo Paese. Ma sono sicuro che riuscirà a cambiare il vostro umore.

La lettera di Chiara l’ha scovata, in un angolo di Repubblica, il nume tutelare del Grillo, al secolo Mauro Querci, che fra i suoi pregi ha quello di scandagliare con caparbietà da palombaro i fondali delle rubriche dei lettori di tutti i giornali. Quasi sempre riesce a scovarci delle perle preziose, che altrimenti sfuggirebbero ai più. Com’è successo in questo caso. La dottoressa Chiara Tabet, «un’italiana rimpatriata», scrive una lettera breve ed efficace, che vi riporto.

«Perché sono tornata. Mi chiedono, alla posta, perché sono tornata. Me lo chiedono al supermercato, al bar, nei rifugi di montagna. Me lo chiedono, anche a scuola, dove lavoro. Un insegnante mi dice che è stato un errore, che il Canada è un Paese bellissimo e che l’Italia, invece, è condannata a morire di una morte lenta e triste. Perché sono tornata? Sono cittadina canadese e italiana. Ho conosciuto Paesi caldi e freddi, ho camminato accanto ai laghi della Norvegia, mi sono sdraiata sulle dune bollenti di Abu Dhabi, conosciuto fino in fondo la scortesia dei parigini, bevuto come una scozzese. Ho sposato un canadese, sciato sulle montagne della British Columbia. Ho lasciato un lavoro meraviglioso, ben pagato, e un appartamento dal quale si vedeva il mare di Vancouver. Perché sono tornata? Perché questo è anche il mio Paese, e perché contro la rassegnazione bisogna lottare».

Confesso che la lettera è così bella e perfetta che lì per lì ho pensato a un falso costruito in redazione. Così, sempre con l’aiuto del nume tutelare, sono andato a verificare. E ho scoperto che invece la dottoressa Chiara Tabet esiste davvero. Nata nel 1978, sposata con un canadese (Darren), proprietaria di un gatto (Gatto), che definisce «il più bello del mondo», si è laureata a Roma, dottorato a Pisa, poi è andata a lavorare all’estero. Da ultimo dirigeva un liceo internazionale a Vancouver. Ha vissuto in Canada, Norvegia, Francia, Inghilterra e Scozia. E ora è tornata a Roma. «Perché questo è anche il mio Paese e perché contro la rassegnazione bisogna lottare», come scrive lei. E meglio non poteva dire.

Ora non so se a Chiara piace la parola «patria», magari no, e magari le dà anche fastidio essere accostata a essa. Ma io in mezzo a tanti che si proclamano a vanvera patrioti non ho visto, ultimamente, un patriota come lei. E in mezzo a tanti sedicenti sovranisti non ha mai visto una sovranista come lei. È cittadina del mondo, ama Oslo e la lingua norvegese, il Canada e la birra scozzese, le dune bollenti di Abu Dhabi e le montagne della British Columbia, ama viaggiare e vivere in tutto il pianeta, e per di più scrive a Repubblica, redazione che fa la macumba ogni volta che sente parlare di «patrioti» e «sovranisti». Però è la più patriota e sovranista di tutti. Nel senso migliore del termine. Anche se forse sentirselo dire le dispiacerà.

Non importa, io voglio farle sapere che l’ammiro. E che vorrei fare leggere la sua lettera nelle scuole. Perché ci vuole un bel coraggio, mentre schiere di ragazzi se ne vanno legittimamente all’estero a cercare salari che non siano da fame, mentre i migliori giovani emigrano perché qui non è possibile far ricerca, mentre medici e infermieri scappano dal nostro Paese e dalla sua Sanità a pezzi, ci vuole un bel coraggio a percorrere la corrente al contrario, come un salmone tinto di tricolore. E ci vuole un bel coraggio, in mezzo ai cori di mugugni, in mezzo alle lamentele perenni, alle autocommiserazioni e ai tafazzismi, in mezzo a tanti egoismi e individualismi, in mezzo a eserciti di italiani che non perdono occasione per vituperare l’Italia, ci vuole un bel coraggio a dire: «Questo è il mio Paese». E io non so se leggere questa lettera ha fatto cambiare l’umore anche a voi, come è successo a me, non so se dopo averla letta avete ritrovato un po’ dell’energia che pensavate perduta per sempre, ma io sentivo di dovervela consegnare. Perché non c’è niente di più importante che lottare contro il grande male che rischia di annichilirci: la rassegnazione. E Chiara ci aiuta in questa lotta. Ci aiuta davvero. A patto che fra due mesi non ci scriva un’altra lettera, magari dall’Australia.

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Mario Giordano

(Alessandria, 1966). Ha incominciato a denunciare scandali all'inizio della sua carriera (il primo libro s'intitolava Silenzio, si ruba) e non s'è ancora stancato. Purtroppo neppure gli altri si sono stancati di rubare. Ha diretto Studio Aperto, Il Giornale, l'all news di Mediaset Tgcom24 e ora il Tg4. Sposato, ha quattro figli che sono il miglior allenamento per questo giornale. Infatti ogni sera gli dicono: «Papà, dicci la verità». Provate voi a mentire.

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