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Kissinger, l’uomo con le chiavi dei destini globali

Kissinger, l’uomo con le chiavi dei destini globali

È stato l’eminenza grigia della politica americana negli anni Settanta, accanto a Richard Nixon e Gerald Ford. Con uno stile da cowboy (ma in realtà in modo molto più sottile) esercitò un potere capace di modellare la politica Usa e quella mondiale. Oggi, dall’alto dei suoi 100 anni, ancora ragiona sulle sorti del pianeta…


Ha tenuto in tasca le chiavi del mondo, allacciate in un fermaglio, insieme a quelle che avviavano il motore dell’automobile e aprono il cancello di casa. Henry Kissinger poteva incontrare Mao Tze-tung (quando la Cina era considerata un pericolo universale), aveva libero accesso al Cremlino (nonostante la Guerra fredda) e gli era consentito di svegliare il presidente americano (entrandogli in camera da letto). A pochi giorni dal compiere 100 anni, il 27 maggio, resta accostato alle immagini dei supereroi. Anche la stampa che lo ha criticato non poteva evitare di attribuirgli il titolo di Superman, Superstar o Superkraut per via delle sue origini in Germania. Del resto, il tedesco gli è rimasto addosso come un marchio e l’accento non lascia dubbi.

Quando parla non cambia tono di voce al punto che risulterebbe monotono non fosse per l’inframmezzarsi di suoni gutturali che entrano nelle frasi come una sorta di punteggiatura. Il secolo che si porta sulle spalle non gli ha tolto la voglia di ragionare sui destini dell’Universo. La guerra in Ucraina? «Ero contrario al suo ingresso nella Nato» assicura alla Bbc. «Lo consideravo un azzardo perché avrebbe provocato la reazione di Mosca. Ma ora, con la reazione avvenuta, non ci sono più ostacoli per il suo ingresso nell’alleanza militare. Però…».

Kissinger ha modellato la politica Usa sulla base della «realpolitik» secondo la quale, se cambiano i fatti, devono cambiare anche le opinioni. «Però» aggiunge di conseguenza «levatevi dalla testa di umiliare Vladimir Putin. La Russia deve essere integrata nel tessuto europeo nel quale è cresciuta per 500 anni. Se le si sbarrano le porte la si spinge verso l’Asia, con il risultato di danni anche peggiori». In questa valutazione – come in quelle che l’hanno visto protagonista per decenni – a farla da padrona è l’idea della convenienza. Nella sua diplomazia, la morale non trova spazio. E persino il giusto ha pochi margini di cittadinanza.

Lui, per i suoi primi 15 anni, è stato Heinz e viveva a Furth in Baviera. Era ebreo e, con la famiglia, fu costretto a scappare per evitare le rappresaglie naziste. Nel 1938, giusto una dozzina di giorni prima della tragica «Notte dei cristalli» con i pogrom antisemiti, trovò posto su una nave che lo traghettò a Londra da dove poi, con l’aiuto di parenti, approdò a New York. Niente grilli per la testa: lavorò in una fabbrica di spazzole poi trovò impiego in un ufficio postale come fattorino. Nel 1943 si arruolò nell’esercito americano e, in Germania, per la sua conoscenza della lingua tedesca, fu inquadrato in un reparto di controspionaggio. Nelle pieghe ancora sufficientemente in ombra della sua biografia, emerge un’attività di reclutamento di alcuni «quadri» nazisti che sarebbero stati incorporati in cellule operative in funzione anticomunista. Lui era incaricato di selezionare questi nuovi collaboratori. Hitler non era più un pericolo ma Stalin era in grado di prenderne il posto per cui era meglio anticiparne le mosse, preparando un contingente capace di tenere sotto controllo le iniziative sovietiche.

Poi, per vent’anni, si occupò di studiare e d’insegnare le questioni legate alle «dottrine politiche internazionali». Agli incarichi di governo arrivò attraverso il miliardario Nelson Rockefeller che gli offrì di dirigere la sua Fondazione. La quale Fondazione, orientata a comprendere le dinamiche politiche del mondo, era un punto di riferimento per il presidente Dwight D. Eisenhower e per mezzo establishment repubblicano. Ma Kissinger andava a genio anche ai democratici. Dopo l’assassinio di John F. Kennedy, collaborò con Lyndon Johnson che gli chiese di preparare un report sulla questione del Vietnam. Gli americani si erano lasciati impelagare in una guerra che si stava rivelando un boomerang. Lui – dicono – si rese conto degli errori che si stavano commettendo in quello spicchio di Sud-est asiatico ma la sua analisi non bastò per togliere gli Usa dai guai. Non in quel momento, perlomeno.

Il potere vero Kissinger lo raggiunse dopo un anno terrificante, il 1968. Robert Kennedy, che sembrava il più accreditato per vincere le elezioni presidenziali (anche sull’onda dell’emozione provocata dall’assassinio del fratello) fu ammazzato poco dopo Martin Luther King. Il mentore di Kissinger, Nelson Rockefeller (governatore di New York), perse le primarie contro Richard Nixon che, alle urne, non ebbe rivali, e una volta alla Casa Bianca ritenne che quel ragazzo molto secchione e un po’ spregiudicato faceva al caso suo. I due erano fatti per intendersi grazie a una naturale predisposizione per la diplomazia segreta, quel pragmatismo esagerato che li animava e la spruzzata di cinismo, capace di non sottilizzare su questioni inopportune.

Kissinger, il 20 gennaio 1969, diventò il consigliere della presidenza per le questioni internazionali che imboccò la logica del «negoziato permanente». Le armi atomiche rendevano indispensabile un trattato universale di non aggressione. Occorreva «indicare alternative meno catastrofiche di un olocausto nucleare».

In poco tempo riuscì a costruirsi la fama di persona intelligentissima ma spericolata, con molto intuito, pochi scrupoli e terribilmente vanesia. Anche sciupafemmine ma, su questo dettaglio, ci si è limitati ad ammiccare.

Il consigliere diventò segretario di Stato (22 settembre 1973) con tale influenza che – fra il serio e il faceto – presero a segnalarlo come «il vero presidente». Quello che non si riuscì a fare in Vietnam in tempi utili, dovette realizzarlo fuori tempo massimo. Dapprima, Kissinger non ebbe riguardi nel promuovere bombardamenti in Cambogia, che forniva il supporto logistico alle forze di resistenza di Ho Chi Minh. Poi, a guerra praticamente persa, negoziò il trattato di pace, al punto che per questo ottenne il Nobel. È stato il primo, fra i guerrafondai, a ritrovarsi a Stoccolma per ritirare un premio immaginato per chi s’impegnava a impedire l’esplodere dei conflitti.

Ha viaggiato a ritmi forsennati tanto da lasciar ipotizzare l’esistenza di una serie di suoi cloni. È riuscito a imbastire alleanze paradossali, raggiungendo accordi apparentemente impossibili. Ed è stato in grado di tenere il mondo con il fiato sospeso come se il mondo fosse la sua scolaresca di Harvard.

Per definire gli accordi, Salt 1 e Salt 2, per la «non proliferazione nucleare» si trasformò in una specie di globetrotter e non mollò, a dispetto delle contestazioni che gli vennero dalla sinistra radicale e – contemporaneamente – dalla destra nazionalista. Ha immaginato un mondo in assoluto equilibrio con forze, e alleanze di forze, che si pareggino fra loro.

Per questo, ha sfilato la Cina all’Unione sovietica. Insieme, i due imperi comunisti sarebbero stati troppo forti anche senza bomba atomica. Le frontiere dell’Asia erano rimaste sigillate e lui si preoccupò di forzarne la serratura, andando a cena con Mao e con il suo primo ministro Zhou Enlai. Tutto ovattato nel silenzio: mangiarono l’anatra croccante «alla pechinese» e crearono i presupposti per una collaborazione destinata a durare.

Solo quando i tempi maturarono, fu scelto di affidare alle rispettive squadre olimpioniche di ping pong il compito di fare uscire allo scoperto l’informazione che i rapporti fra Usa e Repubblica popolare cinese erano stati scongelati.

Certo, ha ficcato il naso anche in Sudamerica, non esitando ad appoggiare i golpisti di Augusto Pinochet che diedero l’assalto al palazzo della Moneda, ammazzarono il presidente Salvador Allende e lo sostituirono con una giunta militare. Gli «aiuti» riguardarono il Cile ma anche Argentina e Brasile.

Per questo, nel 2001, il procuratore di Giustizia di Buenos Aires Rodolfo Corral firmò nei suoi confronti un mandato di comparizione per complicità nelle vicende criminose di cui i militari si erano resi responsabili. Kissinger – passato indenne dallo scandalo Watergate che costrinse alle dimissioni il presidente repubblicano Richard Nixon per aver spiato i democratici – poteva preoccuparsi di un pezzo di carta che arrivava da quattromila chilometri a sud? Nel 2001 – quasi in risposta alle iniziative sudamericane – fu nominato presidente della commissione che doveva indagare sulle vicende che portarono all’attentato delle Torri Gemelle.

Il fatto è che agli americani è piaciuto, e piace, perché gli riconoscono – inconsciamente – lo stile del cowboy: quello che sta alla guida della carovana, che galoppa davanti a tutti e che entra, da solo, nella nuova città di frontiera. Insomma un personaggio da western che richiama l’epopea della conquista. Anche se i paragoni più appropriati stanno dall’altra parte dell’oceano: i cardinali Mazzarino con Luigi XIV e Alberoni con Filippo V. Loro servirono i monarchi di Francia e di Spagna. Lui – più modestamente – la Casa Bianca. Ma tutti e tre senza identificarsi con la Patria. Da apolidi.n

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