Il braccio armato della legge
L'editoriale del direttore
La lettura dei giornali è sempre utile, soprattutto di quelli degli anni passati. Infatti, a sfogliare le pagine dei quotidiani vi si trovano chicche insperate, in grado di sorprendere anche chi, come me, ha una buona memoria. La scoperta in questo caso riguarda il mutato atteggiamento nei confronti della magistratura da parte della stampa progressista. Da quando è scoppiato il caso del trasferimento dei migranti, la sinistra a testate unificate sostiene che i giudici non possono fare altro che applicare la sentenza della Corte di giustizia europea, disapplicando la legge italiana. Io pensavo che i tribunali in realtà dovessero soltanto attenersi alle norme votate dal Parlamento, perché nella logica della separazione dei poteri tocca alle Camere legiferare, non certo alle toghe attraverso le sentenze. Ma per opinionisti e post comunisti (a volta sono la stessa cosa), i giudici possono sottrarsi all’obbligo di applicare la legge in forza di dispositivi superiori, vale a dire che possono scegliersi le norme che più si confanno al loro orientamento e in questo caso torna comodo la sentenza della Corte di giustizia europea.
Ma a questo proposito conviene rileggersi un editoriale pubblicato da Repubblica e firmato dall’uomo che per mezzo secolo o forse più è stato il maître à penser della sinistra: Eugenio Scalfari. Già il titolo dice tutto: «Sopra i giudici vince la legge». L’opinione prende spunto da una vicenda di cronaca: l’arresto del direttore generale di Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, e l’avviso di garanzia al governatore dell’istituto centrale, Paolo Baffi. Sul finire degli anni Settanta, due magistrati in forza presso il tribunale di Roma, Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi, aprirono un’inchiesta che coinvolse l’istituzione bancaria nazionale. Scalfari nel suo articolo spiegò che la «confusa e oscura vicenda» avrebbe provocato un inevitabile conflitto costituzionale tra poteri dello Stato. E auspicò che la questione fosse portata davanti alla Corte costituzionale «affinché giudichi sulle autonome prerogative giudiziarie che la legge bancaria attribuisce all’ispettorato della Banca d’Italia e al governatore che ne è a capo, stabilisca se i mandati di cattura e di comparizione emessi dal giudice istruttore del tribunale di Roma non abbiano violato il principio della divisione dei poteri, che sta alla base del nostro ordinamento costituzionale».
Avete capito il Vate della sinistra? Secondo lui, Banca d’Italia era un’istituzione inviolabile, protetta da una sorta di insindacabilità. Anzi, dotata di immunità. «Il giudice non può trattare alla stregua di un reato il rispetto del segreto d’ufficio che il governatore e i suoi funzionari hanno osservato anche nei suoi confronti» scrisse il padre della Repubblica. Il quale, rifacendosi a una frase che sarebbe stata pronunciata dagli stessi magistrati («Qui non esistono intoccabili»), commentava: «È vero, lì (in tribunale, ndr) non esistono e non debbono esistere intoccabili. Neppure i giudici dovrebbero esserlo e invece lo sono, poiché nessuno li chiamerà a rispondere dei loro errori». Di più, dopo aver accusato Infelisi e Alibrandi di non conoscere la legge, Scalfari concludeva dicendo che la «tristissima vicenda», oltre ad aver arrecato gravi danni alle istituzioni (bancarie, ovviamente), regalandoci un clamoroso conflitto costituzionale, dimostrava che la procura di Roma e l’ufficio istruzione del tribunale non possedevano la «professionalità indispensabile per esercitare le loro delicatissime funzioni».
Perché mi colpisce rileggere a quasi mezzo secolo di distanza l’articolo del Vate della sinistra? Perché a proposito di magistratura, se qualche cosa è cambiato lo è in peggio; nel senso che se all’epoca un ascoltato opinionista poteva criticare e addirittura sollecitare sanzioni contro giudici, che a suo parere avevano ingiustamente arrestato importanti esponenti delle istituzioni, ora a discutere dell’operato di alcune toghe si rischia la condanna al risarcimento del danno e si ottiene l’apertura di una pratica a tutela non della persona a torto messa in galera, ma del magistrato. Tuttavia, l’aspetto più interessante dell’editoriale del fondatore di Repubblica è un altro. Scalfari, infatti, rivendica la supremazia della legge sul giudice. È colui che amministra la giustizia a doversi attenere alla legge (in questo caso a quella bancaria) e non viceversa. E un anno dopo, quando Baffi e Sarcinelli furono prosciolti da ogni accusa, Barbapapà (era questo il soprannome del giornalista) si chiedeva: «Il giudice che sbaglia e, sbagliando causa danni irreparabili, non soltanto alle singole persone coinvolte ma, quel che più importa, al funzionamento del sistema, può andar esente da ogni responsabilità e sanzione?».
Come detto è trascorso mezzo secolo, ma la domanda posta allora da Scalfari si può ripetere ora, con l’aggiunta di altre due. La prima è se la nostra sia ancora una Repubblica (nel senso di istituzione, non di giornale) democratica e non sia ormai una Repubblica giudiziaria. La seconda discende direttamente dall’editoriale con cui Barbapapà dava voce al popolo della sinistra: quand’è che quest’ultima, da garantista che era, è diventata manettara? Forse da quando ha scoperto che i magistrati sono o possono essere il suo braccio armato per far cadere il governo?