Figliuolo
Il generale Francesco Paolo Figliuolo (Getty Images).
Politica

Nel nome di Figliuolo

Il «salvatore vaccinale» della Patria è gentile e chirurgico. Dopo il caos e i ritardi nella gestione della pandemia da parte di Giuseppe Conte e Domenico Arcuri ha, semplicemente ma efficacemente, affrontato la situazione. E sta risolvendo l'emergenza che per oltre un anno ha flagellato il Paese. Con gli italiani che lo seguono.


Quante volte Figliuolo? Cinquecentomila. È il numero giornaliero delle vaccinazioni, quello che avvicina il Paese alla normalità, messianico e rassicurante come la penna sul cappello degli alpini davanti agli hub vaccinali. Dove la processione continua e l'Italia da un mese funziona, stranamente lontano da chiacchiere ed evanescenti promesse. La colonna sonora è una voce in modalità rap che somiglia a quella di Renzo Arbore: «Stiamo vedendo lavorare la squadra Italia», «Dobbiamo continuare a spingere sugli over 60», «Se pompiamo così, a ottobre otteniamo l'immunita di gregge».

È la voce dell'uomo che ha inserito la chiave nel motore e ha fatto partire la macchina ingolfata: Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario, il generale dietro la collina, dove «ci sta la notte crucca e assassina» puntualizzerebbe Francesco De Gregori. Spingere, pompare, rimboccarsi le maniche, mettere fieno in cascina, stressare i dati. Sono termini inusuali nel lessico bizantino della politica dell'immobilismo che faceva da amaca a Domenico Arcuri.

Sono parole in tuta mimetica che arrivano da un altro mondo ed evocano efficienza, serietà, competenza. Indicano un obiettivo da raggiungere con il gioco di squadra, non richiamano alla nazione ma alla Nazionale. E gli italiani rispondono, ordinati in fila, indotti dal senso di responsabilità della divisa ad essere meno furbetti e più rigorosi. Sembra che, parafrasando quel film di Mario Monicelli, dicano: vogliamo i generali. L'idea dell'uomo forte che prende a calci il virus convince.

L'esempio più illustre arriva dagli Stati Uniti, dove Joe Biden può sperare di ottenere l'immunità di gregge entro il 4 luglio (Independence Day di nome e di fatto) grazie all'idea di Donald Trump di affidare tutta l'organizzazione al generale Gus Perna, capo della logistica della US Army. A chi gli chiedeva come avrebbe fatto, il quattro stelle rispose: «Ho spostato 500 mila uomini in Iraq, che problema c'è?».

Ecco, Figliuolo è arrivato a scompaginare la nostra indolenza, a distruggere il metodo di Roberto Speranza, Arcuri, Angelo Borrelli fondato sull'assunto: «Perché rimandare a domani quello che si può fare dopodomani?». Un mondo di primule incenerito in un amen e sostituito da una Cavalcata delle Valchirie in elicottero. Con il sigillo finale (se lo dicesse verrebbe giù il teatro): «Mi piace l'odore di AstraZeneca al mattino».

I numeri sono le vere medaglie sul petto del comandante dell'esercito nato a Potenza 59 anni fa, tre lauree, che guidò le missioni italiane in Kosovo e in Afghanistan. In tre mesi i centri vaccinali sono passati dai 1.500 del governo Conte ai 2.600 di oggi, la somministrazione che faticava ad andare oltre il 70% delle dosi ricevute adesso «veleggia» (termine che il commissario straordinario adora) verso il 95%. La sintonia con il nuovo capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio, è totale. La litigiosità delle Regioni è diminuita, il piano è rispettato senza polemiche da ballatoio. E lui viene già indicato come soluzione di alcuni drammi nazionali: nuovo capo dell'Anticorruzione, sindaco di Roma. C'è chi più semplicemente inserisce il suo volto severo con mano benedicente nella cornice del Salvator Mundi di Leonardo Da Vinci.

Figliuolo è gentile e chirurgico nello spiegare il successo nella guerra sanitaria. Perché serviva un militare? «Perché decide rapidamente in base alla capacità di saper fare pianificazione operativa e logistica tenendo presenti le variabili». Perché questo salto di qualità? «Perché siamo andati a vedere ogni processo fino all'ultimo miglio». Perché siete arrivati a tre milioni di vaccinati in una settimana? «Perché abbiamo avuto le dosi. Il piano è scienza, organizzazione e percezione nel capire da dove arrivano i problemi». Gli over 80 vaccinati sono il 90%, gli over 70 l'80%, gli over 60 il 65%. E per migliorare? «Bisogna intercettarli in maniera proattiva, li andremo a cercare a casa».

Una prospettiva che ha subito messo sulla difensiva la sinistra radical-intellettual-pacifista. Quella che vede le stellette e pensa ad Augusto Pinochet (che peraltro vestiva in borghese come Aljaksandr Lukashenko). A sintetizzare il pensiero della gauche orfana di Conte, con sdraio riservata all'Ultima spiaggia di Capalbio, è quell'uscita di Michela Murgia, preoccupata di trovarsi davanti il sergente di Full Metal Jacket. «Da un uomo che viene da un contesto militare non ci si può che aspettare un linguaggio di guerra. A me spaventa avere un commissario che gira con la divisa. Gli unici uomini in divisa che ho visto davanti alle telecamere, che non fossero poliziotti impegnati in un arresto importante, sono i dittatori degli altri Paesi. Mai subìto il fascino, quando vedo un uomo in divisa mi spavento».

In Italia la cultura del piagnisteo è sempre in agguato. La retorica antimilitarista scivola sotto il pelo dell'acqua e c'è chi è intimamente deluso, deambula con il fegato in subbuglio perché sperava in una Pearl Harbor. Quando Figliuolo va ospite di un talk show è costretto a subire ammiccamenti da scuola media anche dai conduttori più esperti. Come Giovanni Floris, che gli chiede se al mattino fa le flessioni e la doccia fredda, neanche fosse il colonnello Buttiglione. «Se i presidenti di Regione la fanno innervosire manda i carri armati?». Risate e palline di carta in Terza C. Da Pier Luigi Bersani a Gino Strada c'è un mondo che davanti a una mimetica avverte il prurito antistorico del pregiudizio. Sono gli stessi che qualche mese fa invocavano l'uso dei droni per inseguire i runner, ma fanno finta di dimenticare che non c'è terremoto o alluvione senza un militare o un volontario in divisa pronto ad allungare la mano per salvare, aiutare, ricostruire.

Determinato e pacato, il generale vaccina e tranquillizza gli italiani. «Spero che questa divisa rassicuri. Per me vuol dire 40 anni di impegno, passione e orgoglio. Sono una persona comune che ha avuto la fortuna di vincere un concorso all'Accademia militare. Sono sempre stato al servizio del mio Paese. Tante persone, nei posti martoriati del mondo, quando vedevano una divisa, in particolare di un militare italiano, vedevano anche giustizia e protezione».

Sembra quasi costretto a giustificarsi davanti a chi non aveva sollevato il sopracciglio per la presenza di un generale nel Conte bis. C'era anche lì, ma non faceva paura a nessuno: Sergio Costa, generale di brigata dei Carabinieri, comandante dei Forestali dopo l'accorpamento, per un anno e mezzo ministro dell'Ambiente e tutela del territorio in quota Movimento Cinque stelle. Aveva il vantaggio di poter stare in disparte mentre imperversavano reclute come Luigi Di Maio e marmittoni come Alfonso Bonafede.

Il militare vince dove i civili hanno fallito. E il confronto con quelli di prima è impietoso. Arcuri commissionava all'archistar Stefano Boeri tendoni a forma di primula da 400.000 euro l'uno, per un investimento totale di quasi mezzo miliardo, e lanciava la campagna «La stanza degli abbracci» in mezzo al cellophane con uno spot firmato Giuseppe Tornatore. Tutto uno sfoggio di cultural marketing in assenza di un piano operativo. Solo un piano per coprire le mediocrità.

Ai pochi giornalisti che chiedevano ragione del disastro, Conte rispondeva: «Se ritiene di poter fare meglio di Arcuri la terrò presente». C'era chi a ritmi da valzer lento vaccinava i politici, chi gli avvocati, i giornalisti o i cugini nascosti dietro l'angolo. Regnava il caos, prima del generale degli alpini. E avrebbe continuato a regnare se, ascoltando le sirene del Pd, Mario Draghi avesse affidato il compito a un politico di professione.

Tempi duri per la politica, ora domina lo smarrimento postumo da lockdown. Da una parte il centrodestra non riesce a trovare due candidati sindaci per Roma e Milano, dall'altra siamo in piena Biennale permanente del Letta-pensiero. Dadaismo puro, fra voto ai sedicenni, tassa sul caro estinto, Ius soli, Ddl Zan, apertura alle donne prete. Nel frattempo Figliuolo vaccina a raffica, per fortuna. E accanto a lui altri generali senza divisa, silenziosi servitori dello Stato messisi a disposizione, portano avanti il Paese.

È la spina dorsale del governo Draghi, quella che trovò i cassetti vuoti dell'era Casalino: Enrico Giovannini spinge sulle semplificazioni, Vittorio Colao sulla transizione digitale, Marta Cartabia sulla riforma della giustizia in chiave garantista, Daniele Franco sul ritorno a un'economia meno statalista. Sono i tecnici ad affrontare i problemi, gli stessi che Conte aveva convocato come parafulmini e poi preso in ostaggio in un rigurgito di invidia nella stagione tutta stucchi e specchi e banchi a rotelle degli Stati generali.

Ora è un'altra storia, ma all'orizzonte avanzano nubi. Secondo il New York Times, la campagna vaccinale italiana è destinata a scontrarsi con «una sacra istituzione, le vacanze estive». Il quotidiano è scettico, perfino Figliuolo potrebbe rimanere impantanato sul bagnasciuga, logorato dalla guerra di posizione del tornitore Brambilla che non rinuncia alla pensione Mariuccia di Cesenatico, con la tacca sull'etichetta del Lambrusco in tavola. Il generale non ha intenzione di farsi intenerire: «Dobbiamo continuare a spingere sugli over 60. A giugno ci sarà la spallata. Poi potremo anche dare luogo a qualche inventiva. Per l'estate è bene che chi va in vacanza regoli le proprie ferie in funzione dell'appuntamento vaccinale».

È un'ossessione e così deve essere. Lui sa che potrà tornare ad arrampicarsi in montagna o a nuotare in piscina (40 vasche, non una di meno) quando tutto sarà finito. «Vaccineremo da Vipiteno a Palermo, vaccineremo i giovani in vacanza e nelle scuole, vaccineremo andando oltre i 500.000 perché possiamo farlo, vaccineremo utilizzando centri estivi o montani, vaccineremo sulle spiagge e in collina. Non ci arrenderemo mai». «A régime» sembra Winston Churchill.

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Giorgio Gandola