Quelli che ci mancano
L’idea di mollare, e di mandare a quel paese i partiti che in teoria lo sostenevano, Mario Draghi l’ha covata a lungo, molto prima del fatidico giorno di mercoledì scorso. Un anno fa, alle mie osservazioni sulla tenuta di una maggioranza rissosa e indecisa a tutto, rispose con un gesto eloquente.
Eravamo nel salottino di Palazzo Chigi e il presidente del Consiglio, con la mano destra a taglio la batté su quella di sinistra tenuta aperta. «Se mi rompono» mi confidò «me ne vado». Chiaro il senso: non sto a farmi ricattare da questi; se mi lasciano lavorare, bene, altrimenti mi dimetto. Sull’argomento non mi è più capitato di tornare, ma dopo la sua mancata elezione a presidente della Repubblica ho sempre pensato che l’ex governatore della Bce non vedesse l’ora di fare le valigie, tale era la sua insofferenza per i riti della politica.
Del resto, poco prima di Natale, quando si profilava la possibilità di prendere il posto di Sergio Mattarella, quello di Draghi era parso un discorso di commiato. Il premier aveva rivendicato i successi della campagna vaccinale e il raggiungimento dei 51 obiettivi del Pnrr, ma alla domanda sulla sua permanenza a Palazzo Chigi aveva glissato, dicendo che non era importante la sua presenza, bensì la coesione della maggioranza. «Non ho particolari aspirazioni politiche, sono un uomo, se volete anche un nonno, al servizio del Paese. Il futuro dell’Italia non è determinato da un singolo, ma da un complesso di forze politiche che permetteranno di andare nella direzione giusta». Il senso era chiaro: si può fare anche a meno di me; io ho fatto quel che dovevo e ora posso dedicarmi ad altro. Quasi tutti la interpretarono come un’autocandidatura per il Colle e forse lo era. Di certo, nella sua testa Draghi si preparava a voltare pagina. La piega degli eventi - in particolare la mancata elezione a presidente della Repubblica, che avrebbe creato un vuoto istituzionale e anticipato la fine della legislatura, e l’invasione dell’Ucraina - ha ritardato l’epilogo, ma probabilmente il governo guidato dall’ex banchiere centrale era già arrivato al capolinea sei mesi fa, quando il Parlamento votò il bis a Mattarella.
La guerra ha impedito a Draghi di svignarsela. Lasciare nel momento peggiore sarebbe potuta apparire una fuga alla Schettino e certo le ritirate poco onorevoli non sono nelle corde dell’ex governatore della Bce. Nulla però mi impedisce di pensare che lasciando Palazzo Madama la scorsa settimana, dopo il voto di fiducia che ha rappresentato la fine della maggioranza di governo, Draghi abbia tirato un respiro di sollievo. Meglio di chiunque altro, il presidente del Consiglio sa che l’autunno sarà durissimo. Le sanzioni contro la Russia, di cui lo stesso premier si è fatto portabandiera, stanno mettendo in difficoltà Vladimir Putin, ma ancor più destabilizzano i Paesi europei. Se alle proteste della sua gente lo zar del Cremlino può rispondere con la repressione, a quelle di chi è rimasto senza lavoro o deve fare i conti con un’inflazione che lambisce il 10 per cento l’Occidente non può reagire schierando la polizia. L’economia europea si avvia verso una recessione e quella americana soffre per l’aumento dei prezzi delle materie prime. Scenari che gravano sulle famiglie della classe media e i cui effetti non possono essere facilmente attenuati dai governi in carica, perché dettati da variabili esterne.
Draghi tutto ciò lo sa bene e credo che passi volentieri il testimone, lasciando che siano altri a occuparsene. La durezza con cui la settimana scorsa ha replicato alle forze politiche forse mirava proprio a questo, cioè a sbattere la porta. Mattarella ha provato a creare attorno a lui un consenso che lo costringesse a restare al suo posto, con l’appello dei sindaci, le petizioni sui giornali e le telefonate delle cancellerie. Ma Draghi non è Andreotti, ossia un teorico del tirare a campare, che - secondo il Divo Giulio - era sempre meglio che tirare le cuoia. L’ex governatore ha una reputazione internazionale e quella lo ha spinto a dire «prendere o lasciare», chiedendo una fiducia senza condizioni.
Se Mr. Bce se ne va in qualche modo rasserenato, le ombre che si allungano sul Paese sono invece cupe. E non tanto per il debito pubblico sempre più elevato (è cresciuto anche con Draghi) o lo spread che sale. Nemmeno per i 51 progetti del Pnrr o per l’inflazione che morde. No, il vero problema italiano è la crisi della classe dirigente del Paese, politica e amministrativa. Troppo presi a litigare, i partiti non hanno nessuno a cui affidare la guida del Paese. Non è vero quello che disse il presidente del Consiglio prima dello scorso Natale. Il futuro è determinato anche dai singoli. Senza Ronald Reagan, l’America non si sarebbe messa alle spalle la Guerra fredda e non avrebbe rilanciato l’economia. Senza Margaret Thatcher, la Gran Bretagna non avrebbe trasformato una potenza industriale in declino in una potenza finanziaria. Senza Helmut Kohl, la Germania non sarebbe stata riunificata a spese dell’Europa. No, Draghi ha torto. Il futuro è determinato dai singoli. Anzi, dagli statisti. Quelli che noi non abbiamo.