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Agli stranieri non piace più studiare nella Cina di Xi Jinping

Agli stranieri non piace più studiare nella Cina di Xi Jinping

C’è un calo drastico degli occidentali che scelgono gli atenei del Gigante asiatico. Pesano il controllo del regime di Pechino, quello degli Stati d’origine e la mancanza di libertà intellettuale.


Anche nel mercato globale dell’istruzione universitaria si va verso un fenomeno di regionalizzazione: si ripete cioè nel comparto educativo quanto sta accadendo per merci e servizi. Il numero di studenti stranieri in Cina fa infatti registrare un calo drammatico, e prende in contropiede i numerosi atenei europei – non pochi quelli italiani – e americani che si erano dotati di programmi di scambio e lauree multinazionali. Molto vistoso è a sua volta il decremento di studenti cinesi che frequentano università occidentali. In Occidente, poi, si tende oggi a fare controlli più attenti sugli studenti provenienti dalla Cina.

Beneficiano di borse di studio? Prendono parte a programmi avanzati di ricerca? Potrebbero prestarsi a furto di tecnologia? O vengono per fare proselitismo e reclutare agenti per conto del regime cinese? A volte sono i ministeri degli Interni occidentali, allorché ricevono le richieste di visto, a svolgere queste verifiche. Altre volte ci sono forme più decentrate di controllo. Di certo non manca il lavoro a chi si occupa di controspionaggio in Europa.

Premessa: da anni ormai le dinamiche geopolitiche stanno rapidamente rendendo obsoleto il paradigma di Thomas Friedman dei primi anni 2000, quello del «mondo piatto». Esso descriveva un unico mercato globale, in cui le imprese competono senza confini. Questo paradigma cede il campo al modello della globalizzazione «ad arcipelago», proposto dall’allora stratega della società di consulenza McKinsey, il giapponese Kenichi Ohmae, sul finire del secolo scorso. Per Ohmae quello del mondo piatto non è che una fase transitoria, in attesa che si consolidino blocchi regionali – le «isole» dell’arcipelago – con scambi e investimenti molto intensi al proprio interno ma deboli tra loro.

La Cina di Xi accentua la sua curvatura autoritaria e tende sempre più a chiudersi, perdendo fascino agli occhi dei giovani in età universitaria. Jia Qingguo, un professore della Peking University, ha di recente svolto una disamina impietosa sulla capacità del sistema della Repubblica popolare di attrarre studenti dall’estero. Nella sua analisi, ripresa dai media internazionali, Jia ha sottolineato il sostanziale fallimento della formula «Study in China» promossa da Xi Jinping con l’obiettivo di espandere l’influenza internazionale dell’istruzione cinese e di conquistare «potere discorsivo». I numeri sono piuttosto eloquenti: il numero di studenti internazionali si formano in Cina, soprattutto dagli Stati Uniti, è crollato da un picco di 15 mila studenti dieci anni fa a circa 350 nel 2023. Anche il numero di studenti sudcoreani è calato del 78 per cento dal 2017.

In un primo tempo, si è provato a giustificare il fenomeno attribuendolo alla lenta ripresa post-Covid. Gli studenti, in altre parole, esiterebbero a tornare nel Gigante asiatico perché è ancora fresco il trauma dei confinamenti domestici. Ma c’è dell’altro. In primo luogo, pesano i problemi di percezione. In breve, è diffusa la sensazione che studiare in Cina non sia remunerativo per gli stranieri: i benefici non giustificano lo sforzo di ambientamento. Senza contare che non è solo difficile, ma anche pericoloso ricevere finanziamenti dal ministero dell’Istruzione cinese, visto che è il classico indizio di «reclutamento» da parte del regime di Pechino. Un secondo aspetto rilevante è dato dal ridimensionamento della presenza e delle attività delle imprese occidentali in Cina, il che si traduce in un calo dei praticantati e di altre opportunità per studenti stranieri che si trovano nella Repubblica popolare. Il terzo elemento fondamentale ha a che fare con la ricerca accademica che a sua volta si lega alla libertà intellettuale. Libertà che in Cina è fortemente repressa. Il saggista Jia sottolinea che le valutazioni di articoli scritti da studenti stranieri non possono essere severe come quelle per studenti cinesi, sottoposti a un’occhiuta vigilanza e censura. Al momento, in ogni caso, a questi giovani di altri Paesi si applicano pesanti norme antispionaggio. In sintesi: agli studenti occidentali non va di essere bollati come spie cinesi al rientro in patria, e per giunta di subire vessazioni durante la permanenza in Cina.

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