Tridico, l'arma segreta dei 5 Stelle
Parla in continuazione di povertà e nei prossimi mesi (che sono già elettorali) si dedicherà a pieno regime a «profetizzare» il salario minimo. Vita e carriera del presidente dell’Inps, che dal 2019 sorveglia e decide sulle pensioni degli italiani. Uno dei pochi che, nonostante le svariate gaffe, ha resistito alle tempeste grilline. E adesso vuole giocare la sua partita.
In quattordici mesi da premier, a Mario Draghi la parola «povertà» è scappata quattro volte: tre nei discorsi programmatici e una, l’ultima, a Natale, quando ha ricordato che «la crescita non è civile se si lasciano indietro i poveri». Invece Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, di lotta alla povertà scrive e parla in continuazione. Si è fermato giusto nel primo mese di guerra poi, lo scorso 30 marzo, è tornato all’attacco con il salario minimo, indicando anche una cifra: nove euro l’ora.
All’interno del Movimento 5 stelle, e non solo, è stato interpretato come il segnale d’inizio della campagna elettorale per le Politiche della prossima primavera. Che Giuseppe Conte si rimetta in carreggiata o meno, da qui al voto, non è ritenuto fondamentale, perché tanto il suo destino è sempre nelle mani di Beppe Grillo. Invece le concrete speranze di M5s di tenere almeno la soglia del 15 per cento, dopo il boom del 32% nel 2018, sono legate a due fattori: che Luigi Di Maio non abbia inciampi alla Farnesina e che la battaglia per il salario minimo mobiliti alcuni milioni di voti, come fu per il reddito di cittadinanza.
E l’uomo che ha ideato e difeso questa forma d’integrazione del reddito è stato proprio Tridico, che nei prossimi mesi si dedicherà sempre più a fare il profeta della paga minima. La vera, grande, fortuna di Tridico, 46 anni, calabrese di Scala Coeli (Cosenza), ultimo di sette figli, con la passione del calcio e del flauto traverso, è di non aver fatto il ministro con Conte. Oggi, questo professore di economia del lavoro di Roma Tre sarebbe probabilmente una delle tante meteore grilline. A marzo del 2018, Di Maio, suo grande sponsor, lo aveva indicato in una rosa di quattro ministri «sicuri» in quota M5s. Ma poi, nel governo con la Lega, Di Maio si tenne la delega al Lavoro, insieme a quella dello Sviluppo economico.
Tridico si rimise a studiare il reddito di cittadinanza, la misura bandiera del Movimento lanciata a fine gennaio 2019 dal palco di un teatro romano, insieme a Lino Banfi, nominato da Di Maio in una commissione dell’Unesco. «E a Jerry Calà niente?» scherzò l’allora vicepremier Matteo Salvini. Ma due mesi dopo, il 14 marzo, lo stesso segretario della Lega, indebolito dall’inchiesta Open Arms, diede via libera alla nomina di Tridico.
A Palazzo Chigi sussurrano che Draghi e Tridico s’ignorino, lontani come sono per interessi e formazione. La poltrona all’Inps, del resto, scade nella primavera del 2024. Il premier è cresciuto al Tesoro ai tempi di Giulio Andreotti, nelle banche d’affari anglosassoni e ha guidato Banca d’Italia e Bce. Tridico è un tipo sorridente e alla mano, ha sempre insegnato e ha portato nel Movimento un sacco di ragazzi, dopo aver letteralmente stregato, in un’audizione parlamentare del maggio 2015, la senatrice Nunzia Catalfo. Già all’epoca, Tridico proponeva il reddito di cittadinanza, ma in versione «pura», ovvero come mera integrazione del reddito, sganciata dall’obbligo di accettare nuovi lavori. Anche Grillo stravede per l’economista, una delle poche sue creature che in fondo, al pari dello stesso Di Maio, non gli ha mai dato problemi.
Visto da Palazzo Chigi, il mantenimento del reddito di cittadinanza è forse il boccone più amaro che l’attuale premier ha dovuto buttare giù per salvare il governo. Tridico, per parte sua, mentre l’Inps non eccelleva nei controlli sul campo, ha continuato a predicare a favore del reddito di cittadinanza. La sua idea è che con il Covid e la crisi, senza quei soldi «oltre tre milioni di persone si sarebbero trovate sul lastrico». Una posizione pragmatica che in realtà trova d’accordo anche molti critici della misura in sé.
Ma il presidente dell’Inps sa anche essere più ideologico e parlare per slogan, come quando ha affermato che «in Italia non si accetta l’esistenza di un reddito minimo perché c’è un atteggiamento molto violento e aggressivo verso i poveri» (13 novembre 2021). Questo tema della «violenza contro i poveri», tirato fuori in risposta alle critiche di Confindustria, moderati e centrodestra, sarà il filo conduttore della prossima campagna elettorale grillina. Una campagna a sinistra del Pd.
Per parte sua, Draghi ha avuto buon gioco a far sparire il salario minimo anche dal tavolo del confronto con i sindacati, a loro volta timorosi di perdere potere sui contratti collettivi. Ma pure qui, è utile seguire le mosse del presidente Inps. Finché c’era Conte al governo, Tridico invocava spesso la misura, ma appena è arrivato Draghi ha ridotto al minimo le esternazioni, limitandosi a dare qualche cifra a effetto ogni tanto. Come a settembre, quando affermò che «oltre due milioni di lavoratori sono pagati sei euro l’ora lordi».
O il 16 febbraio, una settimana prima che la guerra in Ucraina fermasse sul nascere la campagna elettorale. Quel giorno, intervistato su Canale 5, Tridico ricordò che «avere salari bassi oggi, significa che domani lo Stato dovrà integrare pensioni basse» e avvertì che «tre milioni e mezzo di lavoratori irregolari sono una mina per il sistema». Ma soprattutto, tirò fuori il numero magico: «L’importo congruo per il salario minimo è di circa nove euro l’ora, all’interno della forchetta indicata dall’Ue tra 7,5 e 10,5 euro». Va detto però che, come ha denunciato sul quotidiano La Verità il sindacato interno Ugl, il centralino dell’Inps risponde solo 45 minuti all’ora «per risparmiare» e quindi c’è il sospetto che il presidente abbia in serbo anche la riduzione dell’ora.
Nel frattempo, a fine marzo, è partito l’assegno unico per i figli, erogato dall’Inps e deciso dallo scorso governo. Qui Tridico si è tenuto abbastanza in disparte. Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha messo a punto il provvedimento senza grande entusiasmo, ma ben felice di disboscare tutte le precedenti «agevolazioni», che non avevano certo agevolato la natalità. Il meccanismo naturalmente è a misura di Caaf, i centri di assistenza fiscale, ovvero complicatissimo, e richiede di presentare un bel po’ di scartoffie come Cud, estratti conto bancari, certificati di assicurazione, libretti di circolazione. Se poi i genitori non sono sposati, o sono separati, diventa un circo, mentre in Germania basta comunicare con chi vive il figlio e arriva il contributo. Al momento, però, nessuno ci mette davvero la faccia.
Dove invece si giocano milioni di voti è sulle pensioni. Qui Tridico non si stanca di ripetere che in Italia ci sono troppo poche persone che lavorano: 23 milioni a fronte dei 34 in Francia, con un numero di abitanti simile. Per cui bisognerebbe regolarizzare «almeno 3,5 milioni di lavoratori in nero» e, ovviamente, alzare gli stipendi. Mancherebbero all’appello altri 6 milioni di lavoratori, in attesa che fra vent’anni arrivi il boom demografico da assegno unico.
Che i partiti, già molto indaffarati sulla legge elettorale, si mettano a riformare le pensioni a pochi mesi dal voto è abbastanza improbabile. Quanto a Draghi, che incontra i sindacati con il contagocce, sa perfettamente che tra otto mesi si torna alla legge Fornero e gli va bene così. Per tutti, ci sarà solo la possibilità di andare in pensione a 67 anni di età o con un’anzianità contributiva di 41-42 anni e 10 mesi. Beppe Grillo invece schiererà il Movimento, in campagna elettorale, sulla proposta di consentire l’uscita in anticipo a 63 anni con la sola quota di pensione contributiva, che poi si completerebbe a 67 anni con quella retributiva. Ovviamente l’ha pensata Pasquale Tridico, l’arma segreta del Movimento che non era poi tanto segreta.