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Tutti gli errori di Joe Biden

Tutti gli errori di Joe Biden

Il voto per la Casa Bianca del prossimo novembre si avvicina e Joe Biden, registrano i sondaggi, è sempre più in difficoltà. Molti, troppi passi falsi nella comunicazione gli stanno costando la credibilità interna. Ma è sui dossier internazionali che l’esponente democratico ha sbagliato di più. Dall’Afghanistan alla tensione Cina-Taiwan, dall’Ucraina al Medio Oriente.


I gelati non portano fortuna, in politica. Joe Biden non può certo ricordarsi la brutta figura di Matteo Renzi: il settimanale Economist nell’agosto 2014 aveva disegnato il premier italiano su una barchetta di carta che affondava, e per colmo di scherno gli aveva messo in mano un cono. Renzi non l’aveva presa bene e aveva piazzato nel cortile di palazzo Chigi un carretto di gelati, e se n’era mangiato uno. Ma quella manifestazione di stizza aveva segnato anche l’inizio del suo declino. Biden ignora sicuramente l’antefatto renziano. Almeno in forza dell’esperienza, però, un presidente americano dovrebbe sapere che con i giornalisti non si trattano temi seri mentre si gusta un cono. Invece Biden è entrato nella gelateria Van Leuwen’s, a Manhattan, e s’è messo a mangiare crema a favore di telecamere, facendo dichiarazioni sulla guerra tra Hamas e Israele, e su improbabili cessate-il-fuoco. È stato sommerso dalle critiche. Denigrato. Ridicolizzato.

Sono quotidiane, ormai, le gaffe dell’«uomo più potente del mondo». Eppure non riescono a pesare quanto i suoi disastrosi errori in politica estera. Il presidente democratico ha fatto del suo peggio anche in Medio Oriente. Dopo la mostruosa strage dei 1.400 civili israeliani trucidati da Hamas il 7 ottobre, Biden prima ha dato appoggio incondizionato a Benjamin Netanyahu nell’attacco di terra contro i terroristi di Hamas, senza cercare di moderarne la reazione. S’è quindi mostrato incapace di prevedere che una guerra a Gaza – per quanto giustificata – rischiava di essere un boomerang perché avrebbe riunificato il mondo arabo contro Tel Aviv e gli Stati Uniti, e che le immagini delle vittime palestinesi, sapientemente usate dalla propaganda anti-israeliana, avrebbero fatto dimenticare quelle israeliane e infiammato le piazze occidentali. Quando poi tutto ciò è accaduto, il presidente s’è limitato a fare retromarcia e a dissociarsi dal conflitto, con il solo risultato d’inimicarsi oltre metà dell’opinione pubblica americana e tutta quella d’Israele.

I sondaggi di fine febbraio parlano chiaro: 56 americani su cento dichiarano «disapprovazione» per Biden, e 45 tra loro manifestano «totale disapprovazione». Siamo quasi ai picchi assoluti di sfiducia (il 58 per cento) incassati da quel reprobo di Richard Nixon nel luglio 1974, un mese prima di essere costretto a dimettersi per il celebre scandalo del Watergate. Se si dovessero mettere uno dopo l’altro gli errori in politica estera del presidente democratico, però, Nixon al confronto tornerebbe a giganteggiare.

In effetti Biden, che pure nel gennaio 2021 s’era insediato alla Casa Bianca al motto «l’America è tornata», non ne ha azzeccata una. I soliti sondaggi ritengono che la colpa sia da attribuire alla sua scarsa lucidità: i tanti segnali di disorientamento fanno ritenere a 59 americani su 100 che il presidente sia afflitto da «declino mentale». Ma danno la colpa anche a chi lo manovrerebbe a distanza: il 63 per cento degli elettori teme che la Casa Bianca sia «influenzata da Barack Obama e/o dal suo entourage». Le ambiguità in politica estera sarebbero quindi frutto degli scontri all’interno di una «cabina di regia» sommersa, per di più priva della mediazione personale di un presidente forte.

Qualunque ne sia la causa, la gravità degli errori americani in campo internazionale è evidente. Basta riavvolgere il nastro degli ultimi tre anni: ne esce una «via crucis» politica, costellata da alcune tra le principali cadute nella storia degli Stati Uniti. Basterebbe, da sola, la gestione della ritirata dall’Afghanistan. È vero che a decretarla, nel febbraio 2020 a Doha, non era stato Biden ma il suo predecessore Donald Trump, che aveva tirato l’ultima riga sotto a 1.000 miliardi di dollari inghiottiti da vent’anni di un’inutile guerra. Biden, però, ha voluto accelerare i tempi e ha sbagliato tutto. Il ritiro è iniziato nel maggio 2021 nel caos più totale, anche per i continui attacchi dei talebani, e s’è concluso il 31 agosto 2021 con la fuga ignominiosa degli ultimi marines dall’aeroporto di Kabul. È stata una sconfitta peggiore di quella, pur terribile, subita nel 1975 a Saigon. Il vero problema è che, sotto questa presidenza, è crollata a picco la deterrenza americana, cioè il fondamentale strumento psicologico-militare che si basa sulla potenza delle armi e su una leadership assieme risoluta e imprevedibile, che venga percepita dagli avversari come pericolosa e concreta. Stefano Graziosi, un analista che collabora con il think-tank conservatore Heritage Foundation e ha appena pubblicato un accurato saggio sull’America di Biden (si veda il box a destra) nota che «non a caso, proprio poche settimane dopo la débâcle degli Stati Uniti in Afghanistan, Mosca e Pechino abbiano rialzato la testa».

È così: proprio tra settembre e ottobre 2021 la Russia ha iniziato ad am-massare truppe al confine ucraino. E da quell’ottobre i bombardieri e i caccia cinesi si sono messi a violare con crescente aggressività lo spazio aereo di Taiwan. Biden ha mostrato gravi difetti anche e appunto nella delicata gestione delle minacce cinesi a Taipei: s’è contraddetto più volte, e in certi casi ha subìto l’onta di essere smentito dal suo staff. Dall’estate 2022, quando il suo omologo cinese Xi Jinping ha iniziato a rivendicare esplicitamente l’isola come «parte integrante della Repubblica popolare», il presidente ha reagito in modo contraddittorio: prima ha dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero difeso Taiwan, poi ha detto il contrario. Il comportamento più pericoloso e sbagliato davanti a un avversario che mostra i pugni.

Biden è stato arrendevole anche con l’Iran degli Ayatollah, grande finanziatore del terrorismo islamico e primo nemico dell’America in Medio Oriente. Nel giugno 2022 Washington ha restituito a Teheran 10 miliardi di dollari di asset, congelati negli anni precedenti da Trump, ottenendo in cambio vuote promesse su un blocco del programma nucleare iraniano. Ma un anno dopo parte di quei miliardi – almeno 6, in base alle ricostruzioni della Cia – hanno finanziato l’attacco di Hamas a Israele. L’avvicinamento di Biden a Teheran ha avuto poi l’effetto di allontanare dagli Stati Uniti l’Arabia Saudita, che si è rivolta alla Russia e perfino alla Cina. Certo, la partita a scacchi più difficile, oggi, è quella che si gioca in Ucraina. Ma anche qui l’amministrazione Biden ha commesso gravi errori. Prima dell’invasione del 24 febbraio 2022, per mesi la Cia ha continuato a segnalare che Vladimir Putin stava preparando la sua «operazione speciale», ma la Casa Bianca non ha usato alcuna deterrenza, non ha mai minacciato contro-mosse in grado di dissuadere Mosca. Anzi. Il 19 genna-io, un mese prima dell’ingresso dei carrarmati in Ucraina, Biden ha rivelato che gli alleati della Nato stavano «litigando sul da farsi» nel caso in cui la Russia si fosse «limitata a un’incursione minore». Proprio quella folle ammissione, forse, è stata la vera miccia dell’attacco. Anche dopo l’invasione, poi, gli Stati Uniti hanno sì fornito aiuti militari a Kiev e varato sanzioni sul petrolio e il gas di Mosca. Ma le loro forniture di armi sono andate a singhiozzo. E fino all’aprile 2023 Washington ha incredibilmente permesso alla russa Rosatom di esportare (anche negli Stati Uniti) combustibile nucleare per centinaia di miliardi di dollari. Forse il presidente americano ha sperato che l’invasione dell’Ucraina avrebbe causato gravi problemi a Putin, magari la sua caduta… Ma le guerre non si vincono con la speranza. Risultato: dopo due anni di conflitto, lo Zar è ancora al suo posto, mentre Kiev torna a perdere terreno e l’Occidente è sempre più stanco. E si divide.

Tra le grandi autarchie, invece, dal 2022 s’è cementata un’inedita alleanza. Biden infatti ha ottenuto un risultato che contraddice oltre 70 anni di politica estera Usa, da sempre attenta a tenere Cina e Russia distanti tra loro. Il 4 febbraio 2022 – cioè 20 giorni prima dell’invasione – Putin e Xi Jinping si sono incontrati a Sochi per le Olimpiadi invernali (dove s’ipotizza che lo Zar abbia anche avvisato il presidente cinese dell’invasione in Ucraina) e hanno firmato un trattato la cui importanza non è stata ancora colta in Occidente. Nelle 18 pagine sottoscritte dai due dittatori si legge che l’accordo «apre una nuova era» che lega Russia e Cina in una «partnership illimitata in campo economico, scientifico e strategico», e «in contrapposizione alla Nato». È un nuovo asse tra regimi, che ha permesso a Mosca di resistere all’isolamento voluto dall’Occidente, determinando in più un suo pericoloso appiattimento su Pechino. Dal gelato di Biden, insomma, esce una Guerra fredda peggiore della prima, che stavolta l’America potrebbe perdere.

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