11 settembre 2001: l'inizio di un'altra storia

La tesi più azzardata (ma anche più improbabile) sostiene che si trattò di un complotto al contrario. Alcuni reparti dell'intelligence americana sapevano dell'assalto dell'11 settembre 2001 alle Torri Gemelle ma lo favorirono (o, perlomeno, lasciarono fare) per giustificare le reazioni di rappresaglia che sarebbero venute. Eccessivo.

In realtà, la «commissione d'indagine parlamentare sugli attentati», presieduta dall'ex governatore del New Jersey Thomas Kean, nel dicembre 2002 (quindi in tempi record) pubblicò una relazione di 832 pagine con la conclusione che si trattò di pessima organizzazione dei vari istituti di sicurezza e di informazioni gestite con colpevole superficialità. Non premeditazione ma inefficienza.

I funzionari «amici» dei servizi segreti malesi e thailandesi avevano condiviso con la Cia una serie di rapporti che riguardavano una riunione avvenuta a Kuala Lumpur. Aveva partecipato lo stato maggiore dei terroristi di al-Qaida per pianificare «un'azione decisiva». Riuscirono anche a intercettare gran parte della conversazione e quindi accertarono che si stava preparando «qualche cosa di enorme». La decisione finale sarebbe stata presa in un successivo incontro previsto a Bangkok.

Alla fine di giugno, il responsabile dell'antiterrorismo americano Richard Clarke e il direttore della Cia George Tenet si convinsero dell'imminenza di un attentato «anche di rilevanti proporzioni» ma - chissà perché - ritennero che il teatro sarebbe stato l'Arabia Saudita, Israele o la Somalia. L'ultimo pensiero fu che potessero insidiarli in casa loro.

Infatti, dettero disposizione di porsi in stato di allerta «delta» (il più alto) ma con particolare riferimento alle ambasciate nei Paesi cosiddetti «a rischio». Invito abbastanza generico. Non notificarono, per esempio, i nomi dei personaggi che, in giro per le città orientali, stavano trafficando per «accendere il grande fuoco». Alcuni disponevano del visto statunitense ma dogane e operatori di frontiera non furono informati. Passò quindi inosservata la circostanza - tutt'altro che trascurabile - che tre di loro si erano iscritti a una scuola per prendere lezioni di volo.

Peggio: a metà agosto una scuola di aeronautica del Minnesota informò l'Fbi che Zacarias Moussaoui poneva «domande sospette». Scoprirono che professava ideologie radicali, aveva vissuto in Pakistan per un lungo periodo ed era stato arrestato dalla polizia francese. Ma che problema poteva dare uno che voleva imparare a guidare un aereo? La richiesta di metterlo sotto controllo venne scartata perché gli indizi di pericolosità sembrarono fiacchi.

Ignorata anche una segnalazione dell'Autorità sulle operazioni di Borsa che rilevò movimenti assolutamente anomali a Wall Street dove in 48 ore - fra il giovedì 6 settembre e il venerdì 7 - vennero spostati capitali per un miliardo e 400 milioni di dollari. Con un'unica regia finanziaria, erano state vendute azioni di company le cui direzioni erano ospitate in uffici alle Torri Gemelle per spostarle sui mercati di Singapore e Shanghai. Il messaggio arrivò sulle scrivanie degli inquirenti e finì seppellito sotto mezzo chilo di altre comunicazioni più o meno rilevanti.

Piuttosto furono «almeno tre funzionari d'ambasciata dell'Arabia Saudita» che, con assoluta consapevolezza, diedero copertura ai terroristi e li favorirono. Per questa conclusione fu necessaria un'indagine più complicata (affidata a Dana Lesemann e a Michel Jacobson) i cui risultati vennero pubblicati nel 2016, a cura dell'amministrazione dell'allora presidente Barack Obama.

Nel dettaglio accertarono che, con fondi dell'ambasciata saudita di Washington, i funzionari finanziarono il soggiorno di due terroristi che vissero in Usa con il pretesto di studiare. E per una «simulazione» dell'attentato, pagarono il biglietto aereo per Phoenix, Arizona.

Durante il volo, i due tentarono ripetutamente di entrare nella cabina di pilotaggio con lo scopo (senno del poi) di tastarne la sicurezza. Ma anche questa circostanza, di per sé allarmante, venne derubricata fra gli episodi di ordinaria amministrazione. Perciò il progetto dell'attentato poté procedere, in un contesto distratto ed eccessivamente convinto di essere protetti nelle mura di casa.

La responsabilità di essere le «menti» dell'attentato furono attribuite al vertice di al-Qaida: in particolare al «principe del terrore» Osama bin Laden, che veniva da una famiglia saudita con disponibilità finanziarie immense; all'egiziano Ayman al-Zawahiri, pure erede di una famiglia blasonata, figlio e nipote di medici e fratello di un'oncologa; e all'afghano Mohammed Omar, in grado di utilizzare una cinquantina d'identità anche se, essendo cieco dall'occhio destro, gli risultava faticoso mimetizzarsi con facilità.

La pianificazione dell'assalto avvenne ad Amsterdam per iniziativa di Khalid Shaykh Muhammed, pachistano d'origine anche se vissuto soprattutto in Kuwait e nella Carolina del Nord dove si laureò in ingegneria meccanica. Poi con tre fratelli si trasferì in Afghanistan per combattere i russi ma, alla fine, si persuase che il vero nemico erano gli americani. Dapprima con obiettivi e metodi approssimativi poi (dal 1999) con l'arrivo in Olanda di Mohammed Atta con contorni più definiti. Per far parte del commando scelsero giovani che parlavano l'inglese con disinvoltura e abituati ad abiti e costumi occidentali. Uno di loro, il saudita Hani Hasan Hanjour, aveva conseguito il brevetto di volo. Circostanza determinante per elaborare il piano: dirottare un aereo di linea e schiantarlo contro un obiettivo definito strategico.

Per amplificarne le conseguenze - come si fosse trattato di agire in fotocopia - immaginarono di moltiplicare la matrice dell'attentato. Pensarono di raddoppiare la consistenza del commando, poi di triplicarlo e, alla fine, disponendo di uomini kamikaze, di muoversi con quattro dirottamenti.

L'ambasciata saudita negli Usa fornì passaporti falsi e attribuì loro false identità. Ci vollero due anni di esercizi per rendere assolutamente automatici i movimenti e prendere dimestichezza con gli strumenti da utilizzare.

Infine, la fase esecutiva.

L'attentato, nel suo svolgimento temporale, propose una dinamica persino elementare. Cosa di più semplice di un commando di uomini motivati che s'impadroniscono di un aereo e lo dirigono sull'obiettivo scelto precedentemente? La sorpresa e l'imprevedibilità avrebbero garantito il successo del blitz.

Infatti ogni passaggio fu realizzato secondo programma. I terroristi s'imbarcarono su voli di linea senza che i controlli trovassero da ridire. Scelsero di non sedersi uno accanto all'altro per poter controllare gli altri passeggeri da diversi punti di vista e si mossero con movimento coordinati.

I dirottatori erano 19 e riuscirono a prendere il comando di quattro Boeing decollati da Boston, da Newark e dal Washington-Dulles. Erano diretti tre a Los Angeles e uno a San Francisco. Scelsero appositamente voli lunghi perché i serbatoi dovevano essere a pieno carico di carburante. Il sequestro e probabilmente l'uccisione dei membri dell'equipaggio a pochi minuti dal decollo.

Due aerei vennero portati a schiantarsi contro le due Torri. Un terzo puntò verso il Pentagono mentre il quarto precipitò in Pennsylvania al termine di uno scontro con i passeggeri che si ribellarono e accettarono di sacrificarsi per evitare conseguenze peggiori. Con ogni probabilità, quell'aereo aveva per obiettivo il Campidoglio indicato, in codice come «la facoltà di legge».

Il bilancio spaventoso: 2.977 vittime oltre i dirottatori e 6 mila feriti. Come si fosse trattato dell'esito di una battaglia campale. Le televisioni rimasero inchiodate sulle immagini delle Torri in fiamme che l'incertezza delle cause e l'indeterminatezza del fine hanno reso lugubri e incancellabili dalla memoria collettiva.

Quelli che erano simboli dell'architettura moderna diventarono l'inferno di cristallo. Decine di milioni, nel mondo, assistettero in diretta a corpi di persone che, per sfuggire il tormento del fuoco, si erano lanciate nel vuoto dal cinquantesimo piano. Sentirono i messaggi in diretta indirizzati alle famiglie. Ascoltarono le loro voci rotte dalle commozione e dalla certezza che era finita. I due palazzi collassarono e precipitarono in una nuvola di polvere che coprì Manhattan per intero.

Nel cuore di New York si aprì un buco nel quale crollò il mondo di certezze in cui pensavamo di vivere. Perché quello fu il momento che segnò il discrimine fra il prima e il dopo.

Il millennio non cominciò il primo gennaio ma l'11 settembre. Da lì si avviò la campagna anti-terrorismo che si concentrò dapprima sull'Afghanistan che proteggeva e dava ospitalità a Osama bin Laden e ai collaboratori più stretti. La conquista di quell'area tutta gole e rocce fu difficile e addirittura impervio pacificarla.

I soldati della coalizione che, a guida americana, accettarono di far parte dei contingenti di guerra (prima) e di pace (poi) si sono progressivamente ridotti per ritirarsi definitivamente. In questo modo i talebani che non si sono mai dati per vinti ma erano schiacciati in posizioni marginali, hanno ripreso il controllo.

Vent'anni per nulla. L'orologio della storia ha terminato il suo giro completo ed è tornato nella posizione d'inizio.

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