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February 21 2014
Steve McQueen è uno dei registi più talentuosi in circolazione. Ho amato Hunger, anche se dentro di me ha avuto l'impatto di un pugno allo stomaco. Nonostante alcuni difetti narrativi Shame è stato fascino visivo allo stato puro. Il cineasta britannico ci ha abituati a immagini emotivamente terribili e artisticamente spettacolari. Ora anche in Italia (dal 20 febbraio) arriva il tuo terzo film, 12 anni schiavo, già vincitore del Festival di Toronto, del Golden Globe come miglior dramma e del Bafta,candidato a nove premi Oscar.
Eppure 12 anni schiavo non è il capolavoro che speravo di vedere. Non dilania come ti aspetti. Non riempie gli occhi graffiandoti il cuore. È un buon lavoro, certo, ma non la promessa immaginata. C'è il tocco di qualità di McQueen, indubbiamente, ma è come se stavolta lui abbia voluto far un passo indietro e far parlare la storia raccontata nella sua durezza, senza la sua magnifica soggettività.
La storia vera di Solomon Northup
12 anni schiavo si basa sulla terribile storia vera di Solomon Northup, narrata nell'omonima autobiografia pubblicata nel 1853. Solomon è interpretato da Chiwetel Ejiofor, autore di un'interpretazione più che solida e nominato all'Oscar come migliore attore protagonista.
Negli anni che hanno preceduto la guerra civile americana, Solomon è un nero nato libero nel nord dello stato di New York, abilissimo violinista, marito e padre di famiglia a Saratoga Springs. Abbindolato da falsi talent scout, viene rapito e venduto come schiavo dall'implacabile mercante Freeman (Paul Giamatti). Portato in Louisiana, subirà dodici anni di schiavitù, prima presso il mite ma vile William Ford (Benedict Cumberbatch), quindi presso lo spietato Edwin Epps (Michael Fassbender). La schiava prediletta di Epps è Patsey (Lupita Nyong'o, nominata all'Oscar come attrice non protagonista), ma sotto lo schiavismo essere i preferiti spesso non è un vantaggio.
Il corpo e la schiavitù, le ossessioni di McQueen
McQueen, quarantaquattrenne nero, anche in 12 anni schiavo tocca i suoi temi ricorrenti, le sue ossessioni, ovvero la schiavitù (fisica o mentale) e la degradazione del corpo, martoriato, strumento di lotta, oggetto di sottomissione. In Hunger ci portava nel carcere di Long Kesh, in Irlanda del Nord, soffermandosi sullo sciopero della fame dell'attivista dell'IRA Bobby Sands e sul suo lento risoluto deperimento fino alla morte. In Shame il protagonista è dipendente dal sesso, le sue membra sono il mezzo per soddisfare quella fame compulsiva.
Ora la schiavitù affrontata è quella più letterale, la lacerante ombra nel passato recente dell'America libera. Con violente frustate, vestiti strappati, stupri, carni lacerate, il corpo è ancora lì, sottoposto alla violenza.
Michael Fassbender, l'attore simbolo di McQueen
In Hunger e Shame Fassbender era il magnetico protagonista. In 12 anni schiavo non ha il ruolo principale ma è comunque lui l'espressione più crudele e sadica dello schiavismo e dello svilimento corporeo, è lui che si avventa con folle brutalità sugli schiavi che considera suoi trastulli personali.
I recenti film sulla schiavitù
Complice la ricorrenza dei 150 anni dall'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, il cinema ultimamente ha presentato diverse nuove letture di quel triste periodo. Lincoln di Steven Spielberg si è soffermato proprio sul processo che ha portato alla sua eliminazione e sulle riflessioni di un grande uomo come Abraham Lincoln. Django Unchained, mescolando storia a immaginazione pura come solo Quentin Tarantino sa fare, ha tratteggiato un nero speciale, schiavo diventato libero tra schiavi, vendicatore e salvatore. Anche 12 anni schiavo racconta la storia di un nero particolare, nato libero e diventato schiavo, talentuoso e istruito a differenza dei suoi compagni di sventura. McQueen si affida però all'accuratezza storica.
Una crudezza mai compiaciuta
I 12 anni di schiavitù vissuti da Solomon sono rappresentati con realismo e crudezza lucida. Senza compiacimento. Sono tanti i momenti terribili a cui è sottoposta la sensibilità dello spettatore, anche se in fondo (purtroppo) non è niente che non possa aspettarsi e che non abbia già conosciuto. McQueen sembra aver quasi rispetto per i suoi personaggi e non calca la mano nel mostrare le umiliazioni che subiscono. Usa la macchina da presa in maniera un po' diversa dal solito e non si sofferma con ostinazione silenziosa sui dettagli, sulla disperazione, sulla determinazione. Riconosciamo però il suo stile in una sequenza stupenda e tremenda, quando Solomon rimane appeso con un cappio al collo, con le punte dei piedi che pesticciano il fango del terreno, per secondi e secondi muti, cercando così di evitare che la corda stringa letale, sotto gli occhi indifferenti di molti.
Un McQueen meno potente del solito
Temevo - e speravo - di uscire dal cinema distrutta da 12 anni schiavo. Ma McQueen questa volta, abbracciando una storia più universale, è meno potente del solito, non strazia, non reca un turbamento totale. La sua regia è più classica, non si abbandona alla sua sorprendente maestria nel tirare fuori emozioni da immagini. Per questo è per certi versi stupefacente che abbia ricevuto nove candidature all'Oscar. McQueen e la bontà del suo ultimo operato non si discutono, sia chiaro, ma l'incisività del britannico non è delle migliori.
Inevitabilmente e ovviamente non si può non stare dalla parte di Solomon e contare con lui i giorni verso la libertà. Il trasporto però non è caldo e assoluto, forse perché per noi, oggi, lo schiavismo sembra una realtà così distante e assurda. Per fortuna.