Politica
April 26 2022
Più che la festa della Liberazione, abbiamo celebrato la festa della decomposizione. A decomporsi è l’intera politica italiana, su tutti i fronti. La sinistra si è presentata in piazza contestando le bandiere americane e della Nato, con il segretario dell’Anpi che giudica “inoppurtuna” la presenza del vessillo degli Stati Uniti, dimenticando che se siamo un Paese libero lo dobbiamo per buona parte ai soldati americani. Il segretario del Pd Enrico Letta viene contestato platealmente, e accusato di essere un servo dell’alleanza atlantica. Nel frattempo la sinistra di Speranza, quella di Articolo 1 come i voti che prenderanno, fa i conti con le compravendite di artiglieria di Massimo d’Alema all’estero. Mentre il cosiddetto “campo largo” con i Cinque Stelle sembra più un “campo santo”, visto che sull’Ucraina Pd e pentastellati sembrano lontanissimi: l’Avvocato del pueblo, Giuseppe Conte, sembra più vicino a Pechino che a Roma, e oggi batte i piedi per non armare gli Ucraini. Per non parlare dei vari scheletri nell’armadio moscovita che un giorno verranno tirati fuori. E questo senza contare la voragine che divide ormai irrimediabilmente l’ala contiana dalle truppe fedeli a Di Maio, con le brigate descamisade di Di Battista alla finestra.
Se l’Atene di centrosinistra piange, certo la Sparta di centrodestra non ride. La separazione sul governo, con Fratelli d’Italia all’opposizione e il resto della coalizione a sostegno di Draghi, non è salutare per l’armonia dell’alleanza. Camminare separati verso la meta comune è un bel proposito, ma non sta funzionando. E anche qui, ci si divide su questioni fondamentali: come il sostegno alla Nato e l’appoggio militare a Kiev. Con la Lega di Salvini appesa a un pacifismo dai contorni sfocati. Al di là della guerra, la partita è sulla leadership del centrodestra, e ad alimentare le ruggini è il travaso di consensi pro-Meloni che invelenisce i rapporti tra alleati, già pesantemente guastati dalla debacle del Quirinale, e oggi ai minimi termini. Il paradosso è quello di avere un centrodestra compatto nell’elettorato e diviso ai vertici: al punto che oggi anche mettersi d’accordo per una riunione via Zoom in vista delle amministrative diventa un’impresa. Basti pensare che in Sicilia, dove si vota per la regione e per il comune di Palermo, l’accordo sulle candidature non si vede neanche all’orizzone. E persino a Verona, città storicamente destrorsa, la coalizione è spaccata.
Insomma, tra un anno si vota, e sul quadro politico non vediamo che macerie. Stracci che volano sui grandi temi internazionali, e sotto sotto, le solite piccole baruffe di bottega. Sullo sfondo, chi rema a favore della ricostituzione di un grande centro, da Renzi in giù, a fronte di chi sogna un ritorno a un bipolarismo che forse è già stato consegnato alla storia. Ci troviamo insomma in una situazione magmatica, una lunga traversata nel deserto di cui non vediamo la fine. Certamente da qui al voto i mal di pancia rientreranno, e una quadra la si troverà senz’altro: ma con quale presentabilità? Nel frattempo la credibilità dei partiti, già sul fondo, comincia a scavare. E questo non è un bene per nessuno. Con i governi tecnici, di emergenza, o di unità nazionale, si può sopravvivere per un po’: ma alla lunga si può anche morire.