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July 11 2019
Aveva immediatamentemesso le mani avanti Michele Sindona, minacciando dalla latitanza dorata all'Hotel Pierre di New York chiunque avesse osato collegare la morte dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana con il suo ruolo di mandante. Mentre il finanziere siciliano tuonava, il corpo dell'avvocato milanese Giorgio Ambrosoli era ancora sotto i flash della Scientifica a Milano, in via Morozzo della Rocca, a due passi dal carcere di San Vittore. Era stato colpito poco prima della mezzanotte del 10 luglio 1979 da un sicario accompagnato da due complici a colpi di 38 special. L'avvocato crollava a terra di fianco alla sua Alfetta, ancora vivo. Con l'ultimo filo di voce riferiva ai primi soccorritori di essere stato colpito da tre sconosciuti, di cui uno soltanto l'esecutore materiale. Ambrosoli andò all'appuntamento con la morte da solo, perché non gli era stata assegnata alcuna scorta da parte dello Stato, nonostante gli evidenti rischi dovuti al delicatissimo incarico.
Finiva così la vita di un'"eroe borghese": sull'asfalto di una via di un quartiere (anch'esso borghese) di Milano. Con lui se ne andavano le speranze di chi ancora aveva creduto nell'opera di un servitore dello Stato e della Giustizia. Pochi ma influenti erano stati i suoi sostenitori durante la meticolosa opera di raccolta delle prove a carico di Sindona e dei suoi uomini, in particolare l'ex presidente dell'ABI Tancredi Bianchi, il governatore di Bankitalia Paolo Baffi ed il suo vice Mario Sarcinelli. Loro conoscevano bene la professionalità di Ambrosoli e la sua disinteressata rettitudine in occasione della liquidazione coatta della SFI, uno scandalo finanziario che aveva coinvolto una rete di imprenditori in Lombardia. Ambrosoli ebbe l'incarico di Commissario liquidatore della BPI nel mese di ottobre del 1974, dopo che l'allora governatore Guido Carli bocciò la proposta di salvataggio dell'istituto in mano a Sindona, decretandone il "crack" e il successivo mandato di cattura per il finanziere di Patti assieme al suo braccio destro Carlo Bordoni.
L'avvocato (allora quarantenne) si rimboccò le maniche, accettando l'incarico pur consapevole dei possibili rischi ai quali un'affare così intricato avrebbe potuto esporlo. Per quattro lunghi anni Ambrosoli lavorò per 12 ore al giorno per ricostruire un infinito puzzle di documenti e operazioni che avrebbero portato ad un'altrettanto ingarbugliata rete di relazioni tra decine di società fantasma dell'ex-impero Sindona. Ambrosoli dovette recuperare tutta la documentazione che fu fatta sparire all'atto della messa in liquidazione della BPI, sia in Italia che all'estero. In Svizzera l'operazione risultò complicatissima perché le banche elvetiche, che avevano avuto relazioni con Sindona, negarono categoricamente ogni forma di collaborazione. Nel frattempo l'iter giudiziario sul fallimento dell'istituto di credito rese nota l'entità del buco, che superò la cifra astronomica di 200miliardi di lire. Mentre lavorava sui documenti, l'affare BPI si gonfiava tra le mani del liquidatore, coinvolgendo ambianti del Vaticano, molti politici e imprenditori, la Massoneria, la mafiaamericana. Il 9 novembre 1977 il giudice Ovilio Urbisci emette l'ordine d'arresto per Mario Baroni, amministratore delegato del Banco di Roma e amico di Giulio Andreotti. Parallelamente parte l'inchiesta americana condotta dall'FBI per il fallimento della Franklin National Bank, passata nelle mani di Sindona nel 1972 e travolta dalle operazioni spregiudicate del finanziere. Il 19 marzo 1979 la magistratura di New York incrimina Sindona e ne blocca l'estradizione in Italia. In questi mesi si moltiplicano le pressioni su Bankitalia affinché si proceda alla derubricazione del finanziere siciliano e a svariati tentativi di corruzione nei confronti dello stesso Ambrosoli, che a a quell'epoca aveva raccolto una mastodontica quantità di documenti probatori (12 mila pagine raccolte in 30 volumi) che l'avvocato milanese avrebbe dovuto portare in tribunale. Negli ultimi mesi le intimidazioni si moltiplicarono e Ambrosoli fu ripetutamente minacciato di morte al telefono da interlocutori dal forte accento siculo. Contemporaneamente i difensori di Sindona, in particolare per bocca dell'avvocato Rodolfo Guzzi, iniziarono una campagna di discredito dell'operato del liquidatore, dipinto come un "persecutore" di Sindona. Atto ugualmente determinante per l'isolamento di Ambrosoli fu il coinvolgimento dei suoi principali sostenitori Baffi e Sarcinelli dietro la pressione di Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti. I due erano stati accusati dalla Procura di Roma di interesse privato in atti d'ufficio e favoreggiamento e sollevati dagli incarichi.
Nonostante in Giorgio Ambrosoli fosse cresciuta la consapevolezza del grave rischio personale a cui si era esposto, non lasciò mai le carte che raccolse in 5 anni di lavoro incessante, senza cedere mai alle minacce e neppure ai numerosi tentativi di corruzione. Il 12 luglio l'avvocato aveva appuntamento in Tribunale con il giudice Giovanni Galati, al quale avrebbe dovuto presentare le carte dello scandalo, che avrebbero certamente aperto un vaso di Pandora nel mondo politico e finanziario internazionale.
Mentre Ambrosoli riordinava le ultime carte che inchiodavano definitivamente Sindona e i suoi collaboratori alle proprie gravissime responsabilità, il finanziere pagava con 25.000 dollari d'anticipo (a cui se ne sarebbero aggiunti altri 90 mila) il sicario dell' eroe borghese, il killer italoamericano William J. Aricò che la notte tra il 10 e l'11 luglio 1979 eseguì gli ordini di Sindona e dell'esponente di Cosa Nostra a New York Robert Venetucci.
La mattina dell'11 luglio la stanza n.33 al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Milano, quella del giudice Galati, rimase vuota. La figura eroica di Giorgio Ambrosoli emergerà tardivamente, quando il mandante del suo assassinio era già morto avvelenato in carcere e si era da tempo consumata la tragedia di Roberto Calvi e di un altro crack, quello del Banco Ambrosiano. Due giorni dopo la condanna definitiva di Michele Sindona all'ergastolo per l'omicidio Ambrosoli, il finanziere siciliano moriva avvelenato dal cianuro contenuto nel suo caffè. Nel 2010 Giulio Andreotti, intervistato durante la trasmissione Rai "La Storia Siamo Noi" dichiarava cinicamente che Ambrosoli "se l'era andata cercando".