40 sono i nuovi 20: al cinema col gusto del pancake – La recensione
Sarà, ma certe commedia d’America tra il pink, il family e il romantic evocano profumi e sapori. Non roba da Recherche, ci mancherebbe. Però, almeno sul piano di personalissime e opinabili sensazioni, scatta in certi casi, per dirne una, la voglia pazza di pancake: sbucante da chissà quali remoti anfratti psico-gustativi. Ecco. 40 sono i nuovi 20 (in sala dal 12 ottobre, durata 97’), col suo curioso titolo italiano indifferente all’originale Home Again, è uno di quei film indiziati di scatenare il desiderio (sanissimo) di frittelle da breakfast allo sciroppo d’acero. Un po’ perché in una scena i pancake vengono scopertamente evocati, un po’ perché il sapore del film è proprio quello, c’è poco da fare.
Un solitario ritorno a Los Angeles con due figlie
Il merito, perché la cosa va considerata positivamente, è di Hallie Meyers-Shyer, trentenne cineasta esordiente (e attrice) losangelina, figlia d’arte e di totale spirito californiano, che ambienta il racconto nella sua città tra sole, palme, oceano e vite dolcemente scombinate. Specie quella di Alice (Reese Witherspoon), proveniente da New York dove ha appena rotto col marito Austen (Michael Sheen) che fa il discografico e la trascura, tornata a Los Angeles con le sue due figliolette a ristabilirsi nella casa della sua infanzia ancora testimone coi suoi cimeli – Oscar incluso – della carriera di suo padre regista, adesso scomparso, e di sua mamma attrice, Lillian Stewart, luminosa, vivente e spesso presente nella storia col volto e la sostanza non declinanti di Candice Bergen.
Quella corte tenace e seduttiva del giovane filmmaker
Alice ha quarant’anni, spirito abbastanza allegro e pugnace da nascondere tristezze e disagi che obiettivamente sbirciano grifagni la sua condizione; cerca di fare del suo meglio come arredatrice, porta le figlie a scuola e soprattutto incontra Harry (Pico Alexander) - che di anni ne ha solo qualcuno più di venti ed è a capo di un terzetto di filmmaker in odor di successo con Teddy (Nat Wolff) e George (Jon Rudnitsky) – il quale, irrequieto, tenace e seduttivo la corteggia: prima saggiandone la resistenza, poi lasciandola teneramente capitolare.
A volte ritornano… a smantellare le illusioni
D’altra parte le circostanze sono galeotte perché il terzetto, squattrinato come da copione, vive ospite nella villa hollywoodiana di Alice, colà invitato dalla madre di lei, riconosciuta come star d’un tempo e lusingata dalla conseguente ammirazione per lei dei tre aspiranti registi. Se non che, a smantellare le illusioni di tutti e a sparigliare le carte arriva Austen, gonfio di nostalgia per la moglie sottostimata, aprendo le porte ad un epilogo di chiarimenti definitivi, non proprio banale e animatore d’una nuova coscienza di sé da parte di una Alice forse disillusa ma rasserenata. Cui Reese Witherspoon, va subito detto, elargisce una vitalità, una fosforescenza, una brillantezza e una mobilità espressiva che, da sole, valgono il film.
Due storie diventano tre nel costrutto brillante
La commedia sentimentale è graziosa, divertente e calda. Aromatica come, appunto, un pancake servito su quell’affollata tavola di Los Angeles dove si raduna la famiglia allargata. Vi si incrociano almeno due storie, quella di Alice col suo carico di figlie, marito-pentito e vita da rifare; e quella dei tre giovanotti alla sfida di Hollywood, con le loro idee di cinema-cinèfilo che male si associano a quelle di produttori sensibili solo alla legge del boxoffice. Poi c’è una terza storia, che unisce gli elementi delle altre due e fa in modo che vi convergano persone e sentimenti in un intrico ben strutturato con caratterizzazioni plausibili e dinamiche d’azione coerenti. Il dialogo è spesso aguzzo e fantasioso, la recitazione collettiva, oltre l’individualità dominante di Witherspoon e la classe di Bergen, è impostata dalla regia sulla sobrietà e l’efficacia.
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