Televisione
February 27 2018
Il 15 luglio 1997 veniva brutalmente ucciso a Miami Gianni Versace, mito assoluto della moda e ambasciatore dello stile italiano nel mondo: a sparargli il serial killer Andrew Cunanan, che sarebbe morto dopo qualche giorno. Come tutti i crimini impregnati di celebrità anche l’omicidio Versace si sarebbe presto ammantato di mistero, col suo grosso carico di depistaggi, colpi di scena e speculazioni più o meno riuscite. L’ultima in ordine di tempo è la serie tv prodotta da Ryan Murphy , in onda in questi giorni su Fox, che prevedibilmente non è piaciuta alla famiglia Versace e ha riaperto quello che ha tutte le caratteristiche del “caso”. Ma polemiche a parte, a vent’anni di distanza da quei tragici fatti perché se ne continua a parlare?
Nel 1999, a due anni dal delitto, la giornalista Maureen Orth diede alle stampe il libro Vulgar Favors (pubblicato in Italia con il titolo Il caso Versace, da Tre60), dove ricostruiva il mistero dell’omicidio Versace, l’incontro dello stilista con il suo killer e quelli che secondo lei erano gli errori macroscopici della polizia di Miami. Il libro non passò inosservato, perché la Orth era (ed è ancora) firma di punta di giornali come il New York Times e Vanity Fair Usa, e si era fatta le ossa su inchieste importanti come quella sul divorzio tra Woody Allen e Mia Farrow e il traffico di droga in Afghanistan. Non era una turista del giornalismo, insomma. La serie tv prende spunto dal suo libro ed è bastato questo a ottenere una sconfessione della famiglia Versace, che ha diramato una nota ufficiale: ”Ci rattrista vedere che tra i tutti i possibili ritratti della vita e della storia di Gianni, i produttori abbiano scelto di rappresentare la versione distorta creata da Maureen Orth”. La terza parte del libro è infatti interamente dedicata al privato dello stilista e alla sua famiglia, con un bel po’ aneddoti più o meno scioccanti (smentiti categoricamente dai Versace, ndr).
In realtà la Orth non è stata neppure la sola a mettere in discussione il modus operandi della polizia americana dopo l’omicidio. Basta rileggersi le cronache del tempo, per capirlo. A mettere in moto la fabbrica dei sospetti ha contribuito anche il fatto che l’assassino Cunanan di mestiere facesse l’escort, con clienti facoltosi e con molti contatti nei giri giusti: il mondo in cui si muoveva Versace non era poi così lontano dal suo.
Pur non approvando il contenuto dell’inchiesta di Maureen Orth e della serie tv, Antonio D’Amico, all’epoca compagno di Gianni Versace, ha più volte ribadito di non credere alla versione ufficiale della morte dello stilista. Così in un’intervista concessa al Giornale nel 2009: «…(il caso) è stato chiuso troppo velocemente. Non credo a niente di quello che hanno detto i giornali, a partire dalla teoria della mafia. Sono convinto che ci sia dietro altro. Qualcosa che però io non posso dimostrare, e di cui non voglio parlare. Io continuo ad avere questo dubbio: finché avrò vita, aspetterò che la verità venga a galla».
Cunanan venne ritrovato morto suicida 10 giorni dopo il delitto in una casa galleggiante, ad appena due isolati dalla casa di Versace. Tutta la dinamica del ritrovamento fu messa in discussione. Perché uno scaltro serial killer, che era riuscito a far perdere diverse volte le sue tracce all’FBI sceglieva di rintanarsi per alcuni giorni in un luogo senza via di fuga, dove non sarebbero stati trovati neppure avanzi di cibo né tracce sul pavimento del colpo di pistola deflagrato da una potente calibro 40? È solo una delle mille domande che si rincorrono tra il libro della Orth e un documentario…
Proprio così: a complicare ancora di più la vicenda, c’è la storia dell’imprenditore italiano Chico Forti, in carcere negli Usa dal 1998, per un omicidio che dice di non aver commesso. Della vicenda si sono interessati molti giornali italiani e la tesi innocentista è stata sposata anche dalla criminologa Roberta Bruzzone. Che c’entra tutto questo col caso Versace? Poco prima dell’arresto, Forti aveva prodotto e girato un documentario che metteva in luce diverse incongruenze della versione ufficiale della polizia di Miami. Lo ha raccontato lui stesso in un’intervista al quotidiano Libero, nel 2015, «Quando, finito di girare il filmato, ho visto che le reazioni erano forse un po’ più forti di quello che immaginavo, ho subito pensato che avrei rischiato qualcosa. Quello che mi è successo non è stata una sorpresa: non è che da un momento all’altro hanno scelto me tra mille, così a caso. Il mio rompere le scatole, il mio andare a cercare la verità in un momento in cui tutti volevano metterla sotto il tappeto è stato determinante. È stata una vendetta».