8 marzo, le donne e la Storia. Il resto è rumore
FIL ROUGE – Mettiamo un attimo la mimosa sul tavolo. E affidamoci per un momento alla storia per capire davvero perché accettarla con un sorriso o, al contrario, dire: “no grazie, preferirei di no”.
Le donne hanno fatto le loro conquiste. Sociali. Politiche. Economiche. In misura diversa a seconda di dove fermiamo di far girare il mappamondo (guardate che bella questa infografica pubblicata dal Guardian)
Ma dobbiamo ricordare due eventi certi e uno discusso che spiegano la giornata dell’8 marzo. Il resto è rumore.
Il primo: porta la data del 1917. A San Pietroburgo fu un gruppo di donne a marciare per le strade al grido di “Pane per la pace!” per chiedere la fine della Prima guerra mondiale e la rivalsa dei loro diritti. Furono loro a dare il la alla Rivoluzione di febbraio che in quattro giorni avrebbe portato alla destituzione dello zar e all’assegnazione del diritto di voto anche alle donne.
Il secondo: siamo dall’altra parte del mondo, negli Usa, ed è il 25 marzo 1911. Nella fabbrica Triangle dell’industria tessile Cotton, a New York, si verificava il più grave incidente industriale della storia della Grande Mela: 146 morti, per lo più giovanissime operaie italiane e dell’est europeo che lavoravano in condizioni pietose.
Questo evento porta al terzo, discusso e controverso. In molti sostengono che l’incidente della Cotton venga confuso erroneamente con un fantomatico incendio di una fabbrica americana avvenuto l’8 marzo 1908 in cui il titolare, stufo delle proteste delle operaie stanche di non essere pagate, aveva bloccato le porte della fabbrica. Divampate le fiamme, non poterono uscire. Morirono in 129.
Vero o meno che sia questo terzo avvenimento, quello che è certo è che i primi del ’900 hanno segnato la presa di coscienza forte da parte delle donne dell’emisfero nord del pianeta di avere pari dignità e diritti degli uomini. Da allora molte cose sono cambiate.
Una però, si è rimodellata, ma ancora non ha compiuto quel salto fondamentale: l’approccio culturale. Ce ne rendiamo conto tutte: dalla numero due di Facebook, Sheryl Sandberg, che pure parla da una posizione di grande potenza e rilevanza (qui il nostro parere) fino a ciascuna di noi quotidianamente.
Non sono una femminista (tutt’altro) e sono allergica agli estremismi. Adoro lavorare e dialogare con gli uomini. Sono convinta che ci siano differenze sostanziali tra i due generi ma belle, curiose e interessanti da conoscere.
Per questo mi piacerebbe non dover più sentir parlare di “femmine” ma sempre di “donne”.
Mi piacerebbe che un giorno a un colloquio di lavoro non mi chiedessero: “È sposata? Ha figli? Ha intenzione di farne?” con occhi minacciosi, quanto piuttosto: “Come gestisce la sua situazione famigliare in modo che sia compatibile con il suo incarico?”.
Mi piacerebbe fosse la stessa cosa presentarmi in ordine con un jeans o in tailleur con tacco 12. Davanti a un uomo così come davanti a una donna (a volte siamo noi stesse le prime a fare discriminazioni poco sensate). Significherebbe prestare attenzione alla testa e non ad altro.
Mi piacerebbe che alzare la voce non scatenasse immediatamente il pensiero: “ha le sue cose”, come se fosse un’onta. Quelle “cose” fanno parte di noi, regolano la nostra vita biologica e in fondo sono il segno che il marchingegno meraviglioso che la natura ci ha donato funziona e possiamo fare figli che portano gioia. A tutti.
E mi piacerebbe che non fare figli per scelta non venisse etichettato come una “mostruosità”, ma come una decisione che merita lo stesso tipo di rispetto di un’analoga decisione presa da un uomo.
Mi piacerebbe non dover assistere alle ingiustizie che colpiscono altre donne in altri paesi del mondo. Dove serviranno ancora decine di anni per raggiungere conquiste sociali minime. Ma mi piacerebbe anche non sentire le persone vicino a me affermare: “e poi si lamentano le nostre di donne…”. Sì, perché un cancro con metastasi è gravissimo, ma un cancro senza metastasi resta pur sempre un cancro.
Ecco perché per adesso io la mimosa la poggio sul tavolo e dico: “preferirei di no”.
C’è ancora troppo rumore da mettere a tacere.
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