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L’Accabadora al cinema - La recensione

Koch Media distribuzione, Ufficio stampa Paola Menzaghi, Cristina Clarizia
Annetta (Donatella Finocchiaro) con Alba (Carolina Crescentini), un'artista che le dona conforto e amicizia
Koch Media distribuzione, Ufficio stampa Paola Menzaghi, Cristina Clarizia
Annetta (Donatella Finocchiaro) potrà forse dimenticare il suo passato e il suo lugubre lavoro accanto al giovane medico Albert (Barry Ward)
Koch Media distribuzione, Ufficio stampa Paola Menzaghi, Cristina Clarizia
Annetta (Donatella Finocchiaro) assiste la nipote Tecla (Sara Serraiocco)
Koch Media distribuzione, Ufficio stampa Paola Menzaghi, Cristina Clarizia
Carolina Crescentini è Alba, artista e restauratrice di icone sacre nella Cagliari martoriata della seconda guerra mondiale

Poco ci manca che porti la Grande Falce nel suo incedere frusciante e nero. Si chiama Annetta e aiuta i moribondi a compiere l’ultimo passo. Viene da lontano, dalla Sardegna profonda e porta un carico di tradizioni scure.

Annetta è Donatella Finocchiaro, protagonista de L’Accabadora (dal 20 aprile nelle sale) di Enrico Pau, cagliaritano cinquantenne che oltre a fare il regista (le due opere precedenti: Pesi leggeri, 2001 e Jimmy della collina, 2006) insegna all’Università e nelle scuole superiori della sua città. Ma soprattutto mostra di studiare il cinema, prima ancora di dirigere i suoi film.

Cosa vuol dire Accabadora
Intanto il titolo. Che è anche quello di un romanzo premio Campiello di Michela Murgia (Einaudi) col quale, però, spartisce zero. Perché in verità la figura che vi si identifica è figlia delle tradizioni segrete e insondabili della sua terra, legata ad una radice linguistica spagnola, acabar che si traduce con la parola fine, e acabadora con finitrice. Tutto lugubremente chiaro e tetro. Del resto, proprio quello fa, di mestiere, la donna. Che non si diverte a farlo, però lo fa meccanicamente, senza tradire emozione o dolore. Arriva al capezzale dell’agonizzante, capovolge, quando c’è, il crocifisso appeso alla parete, lo soffoca con un cuscino o un fazzoletto – talvolta interviene un ligneo martello -  e conclude il suo lavoro.

L'ambientazione
Quando arriva a Cagliari nel cuore della seconda guerra mondiale, col suo passato ingombrante, gremito di enigmi e pene segrete, Annetta  si mette a cercare sua nipote Tecla (Sara Serraiocco) e si strugge quando la trova in un lupanare, tentando invano di strapparla a quella occupazione. Cosa che provvedono a fare, purtroppo, i bombardamenti alleati – intensi, costanti nell’urlo delle sirene tra i cumuli di macerie – dei quali Tecla resta vittima approdando in coma nel letto d’un rattoppato ospedale. È là che Annetta conosce il giovane medico inglese Albert (Barry Ward, in realtà attore irlandese arrivato in dote, nel cast, da una insolita coproduzione del film proprio con l’Irlanda) col quale potrà forse condividere una nuova e più solare visione dell’esistenza aiutata, in questo, anche dal bel rapporto d’amicizia e di confessioni con Alba, un’artista dolce e serena interpretata da Carolina Crescentini.

Un viaggio nella tradizione e nelle leggende alle quali appartiene quella strana figura di donna a cavallo tra mito, credenze e realtà: una sorta di creatura fantastica che i racconti folclorici e qualche ricerca antropologica vorrebbero anziana e che Pau, al contrario, veste di una presenza ancora giovane e affascinante. Lasciando scivolare su di lei un racconto sempre “sospeso”, bagnato nei colori bruni di una fotografia (di Piers McGrail, anche lui irlandese) tutta oscurità, riflessi e giochi d’ombre, percorso da realtà vibranti e ossessioni fantasmatiche.

Perchè guardarlo
Ma c’è dell’altro nelle lunghe pause, nei silenzi, nei canti sardi dilaganti, nella gestualità, nei soprassalti sepolcrali, nel grano ondeggiante e crepitante calpestato “in soggettiva” dai passi di Annetta solcanti la campagna con ripetitività fobica, simile ad un macabro rintocco di morte: come non pensare, all’interno di un racconto così inconsueto, a una traccia di sperimentalismo ardito che rimanda – con ogni necessaria precauzione e dovuta distanza – a certi passaggi di quel  fosco e ibernante manifesto sperimentale di Edmund Elias Merhige chiamato Begotten? Vedere per credere. Sprofondando nella lunga metafora di questo film, specchio di una cultura popolare, della quale l’Italia è ancora prodiga, dove scienza e magia, presente e passato, umani dolori e sibilanti echi horror  riescono qua  a mescolarsi in una interessante manipolazione cinematografica.

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