L'Ue privilegia i produttori di acciaio. Draghi cerchi canali diretti con gli Usa

«Le chiacchere stanno a zero, di laminati di acciaio sul mercato non ce sono. I fornitori oramai quasi non rispondono più al telefono, sia per non rovinare i rapporti con i clienti sia perché in cuor loro sanno che i prezzi sono destinati a crescere più di quanto non abbiano già fatto negli ultimi 14 mesi». Carlo (è un nome di fantasia per proteggere la vera identità) è il direttore acquisti di una delle principali realtà manifatturiere italiane. E che come i suoi colleghi da mesi trascorre le giornate a litigare con acciaierie e centri di servizio per avere qualche tonnellata in più rispetto alle quantità stabilite a fine dello scorso anno. «Stiamo vivendo una vera e propria esplosione dei consumi, ma siamo nelle condizioni di non poter soddisfare i clienti a causa della tensione sul lato dell'offerta». In questa situazione di panico tra gli operatori non sembra che Bruxelles abbia una piena contezza della gravità della situazione. Certo, le dinamiche che hanno scaturito l'esplosione dei consumi sono internazionali, prime su tutte la riaccelerazione dell'economia cinese che lo scorso anno ha assistito a una crescita del 2,3% grazie alle politiche di supply side, accompagnata dal boom di quest'anno dell'economia Usa che, grazie ai circa 5.000 miliardi di dollari, si appresta a registrare quest'anno una crescita del 7,7% sui livelli massimi del 1957. Detto questo, però, e istituzioni comunitarie hanno le loro colpe. Tra le più gravi vi è stata certamente la proposta della Commissione Ue (votata dai Paesi membri) di estendere per 3 anni delle quote all'import di acciaio. Una decisione, questa, che giunge in un momento di estrema carenza di materia prima contribuendo così ad aggravarne le tensioni e il panico tra gli operatori.

Bruxelles, insomma, sembra voler privilegiare l'oligopolio dei produttori a danno del comparto della trasformazione su cui, viene il sospetto, si sta scaricando il costo della riconversione ecologica che le acciaierie tedesche dovranno presto intraprendere data l'elevata presenza dell'altoforno (a differenza dell'Italia dove si produce in misura maggiore con il forno elettrico). «Le acciaierie devono recuperare 8 anni di bilanci negativi», si sussurra a Bruxelles, dimenticando di precisare come il provvedimento danneggi solo leggermente il settore della trasformazione in Germania, dove la filiera siderurgica è verticalizzata, e invece penalizzi in larga misura l'Italia, seconda realtà manifatturiera europea, il cui settore della distribuzione è molto più parcellizzato rispetto a quello tedesco e importa una maggiore quantità di acciaio rispetto agli altri Paesi. Pessime sono state anche le modalità con cui le autorità comunitarie hanno gestito i dossier relativi a Terni e Magona le cui difficoltà e incertezze gravano oggi pesantemente sul mercato. Su Terni, la Commissione Ue intervenne nel 2016 per imporre la cessione dell'impianto da parte della finlandese Outokumpu nuovamente a Thyssenkrupp (da cui l'aveva acquistata), costringendo così l'azienda tedesca a rimettere in vendita l'impianto di Piombino. Una decisione, quella della Commissione, poco comprensibile che, sussurrano gli operatori, ha finito con il favorire la concorrente Aperam di ArcelorMittal per la quale il matrimonio Outokumpu-Terni avrebbe rappresentato un danno enorme. Ma particolarmente fallimentare è stata anche la gestione del caso dell'impianto Magona di Piombino finito oggi nella crisi di liquidità di Liberty Steel che però il 17 aprile 2019 era stato definito dagli esperti della Commissione come un «valido acquirente». Sul fallimento della gestione del dossier dell'impianto dell'ex-Ilva invece le colpe sono da ricercarsi dentro i confini di casa nostra. L'accordo raggiunto tra Invitalia e Arcelor stenta ancora a partire al punto che attualmente gli operai dello stabilimento sono stati messi in cassa integrazione pur a fronte di una condizione di mercato particolarmente favorevole. La sentenza favorevole del consiglio di Stato dovrebbe ora spianare la strada al passaggio di consegne da ArcelorMittal allo Stato e dunque alla riconversione dell'impianto, ma sarebbe un errore pensare che sia sufficiente installare dei forni elettrici al posto di quella più inquinante dell'altoforno per tornare ai vecchi fasti. Se infatti lo scopo di riqualificare l'impianto di Taranto è anche quello di dotare il sistema Italia di un fornitore che all'epoca dei Riva era arrivato a produrre oltre 10 milioni di tonnellate e oggi ne produce sotto i 3 milioni, è importante evidenziare come l'acciaio che esce dal forno elettrico non arriva alle qualità soprattutto estetiche richieste dai comparti dell'auto e dell'elettrodomestico. Alle qualità alte può invece arrivare l'acciaio da preridotto perché, pur derivando da minerale di ferro, come avviene nell'altoforno, elimina il carbone responsabile di grande parte delle CO2 prodotte. Taranto inoltre ha il vantaggio di essere geograficamente vicino al gasdotto Tap e quindi potrebbe utilizzare il gas che arriva dalla Turchia per la riduzione del minerale. Oltre a risolvere i dossier aziendali, al fine di allentare strutturalmente la morsa di ArcelorMittal sul mercato italiano, date le limitazioni all'import con l'Asia e la Turchia, il governo potrebbe prendere in considerazione l'ipotesi di costruire dei canali di fornitura di natura bilaterale con gli Stati Uniti.

Un percorso non certamente semplice se si considera la carenza di offerta che caratterizza anche il mercato statunitense. Tuttavia, la prospettiva di assistere a una recrudescenza della scarsità di materiale che oggi investe in larga misura i prodotti piani (destinati all'auto, elettrodomestico e meccanica) e che domani potrebbe coinvolgere il settore dei lunghi (tondo, vergella) necessari per il settore dei lavori pubblici alla luce della tassa sull'export sul rottame ferroso varata dalla Russia impone la massima diversificazione possibile dei fornitori. Rinviare infatti il rilancio del settore siderurgico infatti rischierebbe infatti di pregiudicare la messa in opera dei piani infrastrutturali contenuti nel Pnrr su cui il governo di Mario Draghi si gioca la reputazione.

Gianclaudio Torlizzi è fondatore di T-Commodity

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