Acque agitate nel Mediterraneo

Chissà se Pietro Ricci, sabato scorso, guardando il mare, ha cantato come l’Equipe 84: «Oggi 29 settembre seduto in quel caffè io non pensavo a te». È durissima voltare le spalle all’Adriatico per chi, insieme a Carlo Di Domenico, ha rimesso in piedi la cooperativa dei pescatori di San Benedetto del Tronto (AP) per mandare avanti un mestiere che si tramanda di padre in figlio, che entra nel sangue come il salmastro, che porta a inseguire l’orizzonte dietro le rotte dei pesci. Ma ora? L’Europa tutta regole, green e distintivo li sta portando a dimenticare il mare, che per loro come per le barche di tutt’Italia - ottomila chilometri di coste dove non c’era scoglio senza un gozzo, una paranza ormeggiati - significa negare sé stessi. Dal 30 settembre le flotte adriatiche hanno ripreso le catture: è terminato il «fermo biologico» che le ha tenute forzatamente in banchina per sei settimane. Ma i pescatori dovranno imbarcare anche il «Grande fratello» che sorveglierà ogni loro movimento.

Da lunedì scorso è entrato infatti in vigore il nuovo regolamento che è un capestro di burocrazia per chiunque cerchi di vivere pescando. Una sessantina di miglia più a nord di San Benedetto del Tronto, a Civitanova Marche, c’è un’altra discreta flotta di paranze, tra cui anche le barche che «vanno a vongole», ma il mare ormai è troppo caldo, ha ridotto le prede e poi c’è il granchio blu che, per fortuna, ha gli stessi problemi di adattamento. Lì i lavoratori del mare sono sul piede di guerra e minacciano: con queste regole non si salpa. A lasciar perdere ci pensano da Trani a Chioggia: si guadagna poco, si spende tantissimo per il gasolio e ora arriva l’Europa a rendere quasi impossibile operare, mentre le squadre navali che battono bandiere straniere arano il Mediterraneo senza ritegno né regole, e vendono il pescato sotto costo. Ma cosa c’è di nuovo, anzi d’antico? Di vecchio c’è il vizio dell’Europa di normare tutto. Di nuovo, c’è che adesso bisogna registrare quello che si cattura a ogni calata. Si vede che il commissario alla Pesca arriva dalla Lituania: 24 chilometri di costa libera sul Baltico, più un’ottantina in laguna. Virginijus Sinkevicius non deve mai essere salito su un peschereccio, altrimenti saprebbe che col libeccio è complicato stare in piedi e recuperare centina di metri di rete che pesano qualche tonnellata - sia a strascico sia a circuizione - ed è tanto faticoso quanto pericoloso.

Ebbene mentre si cerca di cavarsela bisogna contare una a una le prede, catalogarle secondo le diverse specie, pesarle e registrarle. E questo a ogni calata: mediamente ogni ora. In una giornata di battuta si fanno una decina di calate, ma con il nuovo regolamento europeo bisogna ogni volta fermarsi, radunare i diversi pesci e pesarli. Tutto questo sotto l’occhio vigile di una telecamera che va installata a bordo e che registra tutto. Si spera sia priva di audio altrimenti oltre all’«assoluzione» degli euroburocrati serve quella del parroco. Le pene per chi non compila il registro delle catture od oscura il «Grande fratello», sono multe salatissime e si può arrivare anche al fermo della barca e alla confisca del pescato. Così, almeno sull’Adriatico, hanno deciso di ribellarsi. Già la scorsa primavera ci fu una consistente mobilitazione dei pescatori organizzata da Coldiretti, con il presidente Ettore Prandini deciso a chiedere all’Europa un cambio di passo. Che non c’è stato evidentemente anche se il ministro per l’Agricoltura e la sovranità alimentare Francesco Lollobrigida si è impegnato fortemente. Al punto da presentare un ricorso alla Corte di Giustizia europea contro il nuovo regolamento.

Ma la sentenza è di là da venire, mentre le multe sono pronte a partire. Opponendosi al regolamento Lollobrigida aveva detto: «L’Italia è la nazione che è stata maggiormente penalizzata dalle norme Ue nel settore ittico. I nostri pescatori sono stati quelli più colpiti, come dimostra il calo delle marinerie del 40 per cento solo nell’ultimo decennio». Il ministro firmando i diversi decreti per il fermo pesca - sul Tirreno sono quattro settimane, per la Sicilia c’è stata per la prima volta la possibilità di modulare il calendario - ha ribadito la contrarietà dell’Italia e ha messo al centro del G7 di Siracusa anche il tema degli accordi mediterranei su questa attività del mare. Ora che le norme stanno scattando si rischia però che sulle banchine nasca un movimento simile a quello dei trattori che hanno preso d’assedio Bruxelles. Le ragioni come sempre stanno nei numeri.

L’Unione ha deciso di ridurre del 40 per cento lo sforzo di pesca entro il 2026, questo significa perdere circa tremila barche in Italia. L’ultimo rapporto dell’organizzazione per l’alimentazione Fao certifica però: «Sebbene la pesca eccessiva rimanga una preoccupazione, si registra un calo del 15 per cento nel 2023. Vi è, quindi, un miglioramento coerente con una continua riduzione della pressione di pesca, che è diminuita del 31 per cento dal 2012. La pesca di cattura selvatica e l’acquacoltura in acque marine e salmastre nel Mediterraneo hanno prodotto insieme quasi due milioni di tonnellate di prodotti ittici nel 2021, come mostrano i dati SoMFi 2023. Dal punto di vista economico, hanno svolto un ruolo altrettanto importante, generando ricavi per oltre 20 miliardi di dollari e supportando 700 mila posti di lavoro lungo la catena del valore». Il problema è che gli italiani guadagnano sempre di meno: la pesca di cattura fattura ormai da anni un miliardo di euro. E la ragione c’è: vi è una concorrenza sleale da parte delle flotte tunisine, algerine, libiche, turche e anche delle navi cinesi e giapponesi che vengono a pescare nelle acque internazionali del Mediterraneo. Anche con Croazia o Slovenia - per non dire di Albania e Montenegro che non rispettano le regole Ue - si fa fatica a siglare accordi sulla limitazione delle catture in particolare di acciughe, sardine e sgombri che costituiscono circa la metà del pescato. Per sogliole e naselli, per esempio, non c’è più alcun allarme. Nonostante questo Bruxelles punta il dito contro le nostre barche anche se - nota sempre la Fao - «le navi di piccole dimensioni rappresentano la stragrande maggioranza della flotta peschereccia e forniscono più della metà dell’occupazione totale, sebbene arrivino solo a circa il 15 per cento delle catture». È anche per questa ragione che l’Italia dipende all’80 per cento dal pesce importato, essendo noi anche forti consumatori: mangiamo circa 30 chili a testa all’anno, otto in più della media europea. L’acquacoltura, quasi raddoppiata in dieci anni, riesce a rispondere solo a parte della domanda e le differenze qualitative in Mediterraneo sono notevolissime.

Così la nostra richiesta viene soddisfatta da importazioni che in parte favoriscono altri Stati europei, ma in larga parte aprono le porte a pesce di dubbia qualità e alla concorrenza sleale. In un rapporto il centro gestionale della pesca di Mazara del Vallo scrive: «Una delle criticità maggiori oggi è che l’Ue ha posto al centro delle sue politiche la sostenibilità ecologica mentre per Tunisia, Egitto e Libia, le priorità sono altre: il lavoro. Da anni chiediamo informazioni sullo sforzo di pesca di quelle flotte senza successo. Sappiamo che nel 2021 la flotta tunisina ha superato quella italiana nella cattura di merluzzi. I tunisini prima o poi arriveranno a superare gli italiani anche sulla pesca del gambero rosso». Ci sono poi le multinazionali che portano in Italia il pangasio, il pesce dei fiumi cinesi, quello africano sottopagato, l’asiatico sottoposto a scarsi controlli sanitari. Uno dei maggiori operatori, peraltro accreditato dall’Ue, è la cinese Cnfc Overseas. Con una flotta di 250 navi, sei stabilimenti di trasformazione, movimenta 61 milioni di tonnellate di pesce all’anno. Gran parte dei calamari e filetti di pesce che troviamo scontati hanno marchio Cnfc. All’Europa va bene: se non il mare, almeno la burocrazia è salva.

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