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February 11 2019
Per mettere su famiglia, Fabio, un manager genovese, ha investito più di 50 mila euro: tanto gli sono costati i due figli adottati in Russia qualche anno fa. Per dare un fratellino alla sua primogenita, Marco, un operaio del milanese, ne ha dovuti tirar fuori quasi 40 mila: messi da parte mese dopo mese, rinuncia dopo rinuncia, attesa dopo attesa. Poi con la moglie è volato fino in Armenia, per abbracciare quel piccolo di un anno: con i capelli scuri e gli occhi color carbone. Come due cirenei, Fabio e Marco sono solo due delle migliaia di genitori che portano sulle spalle il peso delle adozioni internazionali: esborsi inimmaginabili, montagne procedurali, tempi godotiani.
Salassi e lungaggini sono l’esemplificazione di un sistema che negli ultimi anni, complice la svogliatezza governativa, s’è inceppato. In Italia nel 2010 le adozioni internazionali erano state 4.130. Mentre l’anno scorso si sono fermate a 1.394: il minimo storico. Le famiglie in attesa, intanto, sono 3.706. Meno bambini, e sempre più cari. Un imbuto intasato pure da pochi controlli e regole lasche. Perfino il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, infallibile termometro degli umori popolari, ne ha parlato in un’intervista a Panorama qualche settimana fa: «Io, grazie al buon Dio, ho avuto due figli. Ma ho amici che aspettano da quattro anni. È una cosa barbara. Se ti va bene, poi, devi spendere almeno 40 mila euro».
Partiamo però dall’inizio. Gli aspiranti genitori intanto devono ottenere dal tribunale dei minori l’idoneità ad adottare: un decreto che, dopo gli incontri con psicologi e assistenti sociali, arriva in media nel giro di un anno. A quel punto, bisogna fidarsi. Anzi, affidarsi: a uno dei 52 enti autorizzati dalla Commissione adozioni internazionali (Cai), l’autorità pubblica che sovrintende il funzionamento per conto di Palazzo Chigi. Sono onlus e associazioni attive nella cooperazione internazionale. La prassi prevede, innanzitutto, la firma del contratto: di mezzo, non di scopo. L’ente, insomma, s’impegna a trovare un bambino, ma non garantisce il lieto fine. Prima, però, gli ardimentosi sono messi di fronte agli impegnativi oneri economici di cui dovranno caricarsi. Una parte viene versata per i servizi in Italia: gestione della pratica, corsi di formazione, incontri vari. Poi ci sono i costi per l’estero: tasse adottive, parcelle di avvocati, mediatori e traduttori locali, contanti per qualche ruota da ungere. Con l’avanzare della procedura, i pagamenti vanno avanti: implacabili.
Sui siti di onlus e associazioni si trovano tabelle, divise per Paese, dal sapore merceologico. Si apprende così che un’adozione in Cina, Russia o Kazakistan può arrivare a costare perfino 25 mila euro. A cui vanno aggiunte le sostanziose spese per i lunghi viaggi e i soggiorni all’estero. Oltre a imponderabili varie ed eventuali. Per un totale che, in alcuni casi, sfiora i 40 mila euro.
Così perfino le banche si sono gettate nella mischia, proponendo mutui e prestiti vantaggiosi. Come AdottAmi, della Bnl: «Un aiuto concreto per agevolare l’adozione internazionale». O Adopto, il mutuo delle Casse rurali trentine. Oppure Adobimbo, della Banca popolare di Bari.
Monya Ferritti, presidente del Care, un coordinamento che raduna 33 associazioni familiari, conferma: «L’adozione è diventata sempre più una cosa da ricchi. Dieci anni fa, negli stessi Paesi, si spendeva molto meno». Ferritti è anche uno dei commissari della Cai. Ma non lesina critiche. «È intollerabile che lo Stato non sostenga economicamente le famiglie. Chi ha un reddito medio è costretto a enormi sacrifici. Oppure a rinunciare. Il sistema va completamente rivisto. A partire dal contratto firmato con l’ente, che può sempre nascondere delle gabole. Un tema delicatissimo come questo non deve essere materia da codice civile».
Malumori generalizzati. Luca Chiaramella, presidente di Polaris, associazione del Lodigiano che raccoglie 200 famiglie adottive, ammette: «C’è molta sfiducia. Oltre ai tempi d’attesa medi di tre anni, un’adozione ormai costa dai 20 mila ai 40 mila euro. E in molti casi le spese sono fumose. Molti sono costretti a partire con migliaia di euro infilati nelle mutande e nei calzini, da rifilare sul posto a consulenti e avvocati. Chi gli garantisce, poi, che quei soldi non saranno usati per corrompere un giudice o un funzionario?».
Odioso e condiviso dilemma. «Qualcuno si comporta in modo poco trasparente» denuncia Marco Griffini, presidente dell’Associazione amici dei bambini, uno degli enti più importanti in Italia. «E dove entrano in gioco i contanti, tutto è possibile: dalla corruzione al riciclaggio. Ma ci sono le linee guida della commissione: i pagamenti devono essere trasparenti e tracciabili. E devono trovare riscontro nei bilanci degli enti autorizzati, meglio se certificati da una società di revisione. Il settore delle adozioni internazionali esige controlli: continui e diffusi».
Decine di famiglie denunciano altre opacità. A Panorama hanno raccontato le loro storie, chiedendo però l’anonimato. Storie che si assomigliano. Tutti sono partiti dall’Italia: con la foto dell’agognato bambino in mano. Ma, arrivati a destinazione, la loro felicità s’è infranta davanti a cartelle cliniche allarmanti, sguardi spenti e malattie irreversibili. Anna e suo marito scoprono, dopo aver inviato la cartella clinica dalla Russia all’Italia, che il loro neonato è sieropositivo: rinunciano al mandato, perdendo quasi 20 mila euro.
Vittoria, in un orfanatrofio vicino Dakar, in Senegal, conosce il suo futuro figlio. Ma il suo piccolo corpo malnutrito pende a destra, quasi bloccato. Con il compagno, lo porta da un medico del luogo. Il responso li gela: probabilmente non camminerà mai. Anche loro declinano: intanto hanno speso quasi 14 mila euro. A Giulia e il marito, invece, assegnano un bambino congolese di 7 mesi. Prima ancora di partire per l’Africa, scoprono però che non è adottabile. E sta per morire a causa di una malformazione cardiaca. Giulia, pressata dal marito, firma la rinuncia all’abbinamento. Ha già pagato 15 mila euro: «Dei soldi però non m’importa» spiega. «Da quel momento sono morta dentro. Due anni dopo, ho avuto il cancro. Ma preferirei mille volte avere un altro tumore che perdere un figlio che sentivo già mio».
Altre adozioni finiscono tra tribunali e avvocati. Molte famiglie deluse hanno teso l’arco giudiziario. Per scagliare dardi contro gli enti e la Cai. Sono ormai decine le cause intentate. A Savona è appena cominciato il processo contro Airone, una onlus di Albenga. Nelle aule del tribunale ligure, un postmoderno scheletro di forma triangolare, da qualche settimana si avvicendano sul banco dei testimoni le coppie dell’affaire Kirghizistan. I vertici della onlus e i suoi referenti stranieri sono indagati per associazione a delinquere finalizzata alla commissione di truffe. Ventuno famiglie, che avevano già versato più di 10 mila euro, erano partite dall’Italia nell’estate 2012, sicure di poter tornare a casa con i loro figli. Invece, arrivate a Biškek, la capitale kirghiza, scoprono che nessun bambino salirà sull’aereo. «Perfino i processi in cui veniva dichiarata l’adottabilità erano una messinscena: giudici figuranti, tribunali fasulli, sentenze false» racconta uno dei genitori, Fabio Selini. Che sullo scandalo in Kirghizistan ha scritto e portato in scena un monologo teatrale, Immagina: «Per raccontare cosa ci è successo, soprattutto a chi si sta avvicinando all’adozione. E dare alle persone comuni l’opportunità di conoscere e indignarsi».
Nell’attesa di una sentenza a Savona, Maurizio Falena e Gabriella Lepre, una delle coppie coinvolte, ha portato Airone e la Cai davanti al Tribunale civile di Roma. Che il 30 novembre 2017 ha condannato l’ente e la commissione a un risarcimento record: 193 mila euro. Nel dispositivo, il giudice Assunta Canonaco, riassume: «Una procedura adottiva mal gestita, portata avanti illecitamente in violazione della normativa italiana ed estera». Quanto alle colpe della Cai: non ha sospeso le procedure, non ha informato le famiglie coinvolte e «ha revocato l’autorizzazione all’ente solo nel marzo 2013, dopo oltre un anno, consentendo quindi all’Airone di continuare a operare nel paese in danno degli attori». Pierfrancesco Torrisi, l’avvocato della coniugi romani, rivela: «È stata la prima sentenza in Italia che ha punito la Cai per omessa vigilanza. E tanti, adesso, cominciano a chiedere risarcimenti». Un’altra corposa inchiesta penale è in mano, invece, alla procura di Torino. Che, in seguito alla denuncia di alcuni genitori, ha indagato per truffa i vertici dell’associazione Enzo B. A breve i magistrati potrebbero chiudere le indagini preliminari. E anche in questo caso, i pm stanno verificando eventuali omissioni da parte della commissione governativa.
Si torna ancora lì. Eppure l’adozione internazionale è uno di quei temi che la politica non ha mai smesso di evocare. L’ex premier Matteo Renzi, nella Leopolda del 2011, l’aveva addirittura elevata a novantunesima proposta per cambiare l’Italia: «Più controlli sugli enti autorizzati anche da parte della magistratura, comprese le verifiche sui costi sostenuti. In modo da ridurre gli attuali, e pesanti oneri economici». Alle primarie del Pd, un anno dopo, aveva alzato il tiro: «Oggi una coppia che vuole adottare un bambino deve pagare tangenti a realtà internazionali».
Nominato Presidente del consiglio a febbraio 2014, Renzi diventa, come da regolamento, presidente della Cai. A differenza dei suoi predecessori, che avevano conferito la delega ai ministri della Famiglia, mantiene l’incarico per un paio di mesi. Sua vice è un magistrato ed ex senatrice del Pd, Silvia Della Monica, che ad aprile 2014 viene promossa presidente della Cai. Carica che mantiene fino a maggio del 2016: quando al suo posto è nominata Maria Elena Boschi. Già due anni prima, però, l’allora ministro delle Riforme, era già stata ufficiosa madrina delle adozioni internazionali: seppur per qualche giorno. A maggio del 2014, tra i flash impazziti dei fotografi, riporta in Italia 31 bambini congolesi: destinati a genitori italiani, ma bloccati dal governo africano. Un exploit diplomatico e mediatico, reso iconico dalla treccina fatta al ministro da una bimba, rimasto però isolato. Durante gli anni del governo Renzi, la Cai è stata accusata di immobilismo da tutto l’arco parlamentare. «La commissione non è stata convocata per due anni» dice il senatore leghista Simone Pillon, all’epoca consigliere Cai. «Le adozioni sono crollate e non si sono stretti accordi con nuovi Paesi. Il sistema è andato in cortocircuito. Uno stallo che continuiamo a pagare».
La gestione dell’epoca renziana non s’è guadagnata però solo gli strali politici. Il 12 settembre 2017 alla Cai s’insedia una nuova vicepresidente: Laura Laera, già presidente del Tribunale dei minori di Firenze, trasformato in un modello di efficienza. Il resoconto della prima riunione del nuovo corso è un atto d’accusa contro l’ancien régime: «Si è fornita ampia documentazione a tutti i commissari attestante numerose irregolarità» si legge.
E ancora: «Si è rilevato tra l’altro, in diversi casi, la mancata corrispondenza tra numeri di protocollo e i documenti, nonché l’assenza di numerosi allegati». Infine: «Da diversi anni non vengono effettuati controlli sugli enti». E dal 2012 al 2017 sono stati perfino bloccati i rimborsi per le spese adottive: un contributo dovuto per coprire parte dei costi all’estero. Solo a maggio del 2018, l’atteso annuncio: finalmente quei soldi arriveranno alle famiglie. Con cinque anni di ritardo, però. E saranno molti meno di quelli promessi. Ma per i cirenei dell’adozione, alla fine, questo è solo un buffetto.
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