Quell'Italia che «guai a toccare gli Agnelli» ferma agli anni '80

Ci sono delle regole non scritte che valgono come dogmi per vivere quieti e sereni in Italia. Ad esempio: è vietato parlar male della mamma e degli Agnelli. Regole che valgono per tutti, dall’ultimo degli ultimi al Presidente del Consiglio. Adesso, non so se Giorgia Meloni non lo sapesse o se abbia scelto volutamente di farlo, senza paura, ma è evidente che dei 30 minuti di intervista ieri a Quarta Repubblica, la cosa che ha lasciato più il segno dando spazio a polemiche furiose è stato proprio l’attacco alla Real Casa di Torino. E dire che la premier ha parlato con Nicola Porro di tutto: economia, guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza, elezioni europee; cose però a quanto di pare di secondo piano per la stampa visto il vociare dopo l’affondo lanciato contro gli eredi dell’avvocato.

«Lezioni di italianità - ha detto Meloni rispondendo ad una domanda sulle privatizzazioni - da chi ha ceduto la Fiat agli stranieri spostando all’estero pure la sede fiscale, anche no…».

La frase della premier è legata ad un articolo, anzi più di uno, de La Repubblica (giornale della famiglia Agnelli) con cui il governo è stato attaccato per la decisione di privatizzare parte dell’Eni. Apriti cielo…

Al di là della prevedibile risposta del quotidiano oggi in edicola anche nelle trasmissioni di approfondimento di ieri e stamattina i soliti esperti ed opinionisti di sinistra sono scesi in campo a difesa del Dogma di Stato: gli Agnelli non si toccano, mai.

Non si criticano nemmeno davanti all’evidenza dei fatti. Quanto detto dalla Meloni sul fatto che ormai l’ex FIAT non abbia nulla di infatti è indiscutibilmente vero; a questo potremmo aggiungere righe e righe sulla gestione fallimentare di un’azienda che negli ultimi decenni ha fatto una serie di scelte sbagliate, clamorose, dannose per il paese e l’economia italiana. Il tutto senza che stiamo a ricordare i miliardi in sussidi che governi di ogni colore per decenni hanno versato alla principale azienda automobilistica, e non solo, del paese.

Questione di cultura ed abitudine. Ricordo ancora il dispiacere di mio padre quando nel 1991, al momento dell’acquisto della mia vera prima auto, lo convinsi a dire di no al marchio italiano (il primo ed unico che mi propose, ovviamente) andando su un auto giapponese. Lo convinse l’aver capito la differente qualità del mezzo ed i 3 mln di vecchie lire di differenza nel prezzo (all’epoca erano bei soldi, sappiatelo). Disse di si, ma ci rimase male, pervaso da un senso di colpa come se avesse tradito l’Italia intera.

Sono passati 30 anni e certe cose sono ancora lì, indistruttibili, visto il clamore di queste ore sulle sue parole che continuerà ancora, fidatevi.

Clamore che però resta circoscritto a quel mondo dell’informazione ed opinione che, ancora una volta, dà prova di non conoscere l’Italia. Perché fuori dalle redazioni e dagli studi di radio e tv, di questa cosa, nei bar, sui treni dei pendolari, fuori dalle scuole e nei mercati nessuno ne ha fatto cenno. Gli italiani hanno dato prova, almeno in questo, di essere più avanti di chi si ritiene superiore a loro. «Gli Agnelli? Chissene…».

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