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July 05 2013
di Maurizio Bongioanni
La corsa alla terra ha continuamente fame di nuove destinazioni. L'ultima pare sia la Romania, che da sola rappresenta il 12,5 % di terreno agricolo di tutta l'Unione Europea e dove l'accaparramento di suolo libero da parte di investitori stranieri è in continuo aumento. Tra questi spiccano gli agricoltori italiani i quali, vuoi per il costo elevato della terra, vuoi per la mancanza di accesso al credito e per la burocrazia schiacciante, dall'Italia si sono trasferiti in Romania dove è oggettivamente più facile avviare un impresa.
Sono 1174 le aziende agricole italiane registrate (fonte ICE) che coltivano il 25% del suolo agricolo romeno, circa 200mila ettari. In alcune zone gli italiani rappresentano il 50% delle aziende straniere, come nel distretto di Timis, il cui capoluogo Timisoara è conosciuto come l' “ottava provincia veneta” tanti sono gli agricoltori provenienti da quella regione. Nel Timis ci sono 135 aziende italiane che fanno capo a 30mila ettari.
Nonostante il suo chernozem fertilissimo (secondo alcuni quattro volte superiore al suolo italiano) le imprese straniere coltivano solo mais, grano, colza e girasoli. Sono le colture meno costose e vengono destinate a una fitta rete di intermediari. La Romania ha una pressione fiscale del 16% e un costo del lavoro basso secondo gli standard europei. Ma ciò che attrae rimane il prezzo irrisorio del terreno. «Nel 2003 la terra costava 150 euro l'ettaro» racconta Marco Oletti, imprenditore agricolo e Viceconsole onorario di stanza a Craiova, nuova zona di migrazione italiana «contro una media italiana di 30mila euro. Fu allora che acquistai qualche centinaio di ettari e quando si sparse la voce altre persone mi chiesero di comprare terra per conto loro e di rivenderla a prezzi maggiorati. Diventò il mio lavoro, creai un'agenzia di consulenza e tutt'ora mi occupo di vendere e comprare terreni accorpati».
L' “accorpamento” è un processo indispensabile per chi vuole fare agricoltura convenzionale: oggi la Romania è ancora divisa in milioni di strisce - che gli italiani più nostalgici chiamano 'lasagne' - fette di terreno non più larghe di 7-8 metri. Una frammentazione retaggio del periodo transitorio tra la caduta del regime e l'instaurarsi del nuovo governo il quale divise il terreno agricolo in tanti piccoli appezzamenti equamente assegnati ai contadini delle ex-cooperative statali. Una scelta che se da un lato ha permesso a chiunque di avere un pezzo di terra per l'autosostentamento, dall'altro ha contribuito a mantenere l'agricoltura un'attività pressoché rurale, di sussistenza.
L'accorpamento non è una pratica semplice. La trafila burocratica per mettere insieme i certificati di proprietà richiede parecchio tempo e fino al 2007 la Romania non ha mai avuto un catasto. Ma ciò non ha fermato il mercato della terra: oggi i proprietari con meno di un ettaro sono diminuiti del 14% mentre le grandi aziende che gestiscono decine di migliaia di ettari sono aumentate del 35%.
Mauro e Adriano hanno 28 e 29 anni e sono qui da dieci da quando, terminati gli studi in agraria, il padre comprò loro della terra al confine con la Bulgaria e disse: “Questa è la vita. Andatevela a prendere”. I due fratelli hanno preso alla lettera l'invito e oggi coltivano 300 ettari. Ma per essere considerati 'grandi' devono avere ben altri numeri. Ad esempio quelli di Antonio che coltiva 5000 ettari nella campagna intorno a Scorniçesti, paese natale di Nicolae Ceaușescu. Antonio ha 62 anni e cede la sua proprietà per 8 milioni di euro (in Italia ne varrebbe almeno 40, dice Oletti).
Generalmente l'italiano ce l'ha con il romeno perché «ruba al padrone» racconta Totò, un agricoltore siciliano «pensando di fare un buon affare; invece non capisce che ha la possibilità di avere un lavoro e che noi siamo portatori di benessere». Totò è emigrato perché intorno ad Agrigento non c'era più spazio per allargare la sua proprietà. «Mia figlia mi disse che la Romania le sembrava un albero pieno di frutti pronti per essere raccolti». Ora stanno cercando di portargli via i campi ma lui ha già trovato nuove vie su cui investire: con un suo conterraneo ricoprirà terreni di pannelli fotovoltaici. Lo stesso conterraneo è in Romania perché in Italia le banche non gli concedono più credito: «Strade, ponti, autostrade: in Romania ci sono un mucchio di cose da fare».
Produrre energia è un'evoluzione degli affari conclusi sui campi dei romeni. Oltre al fotovoltaico a terra ci sono le centrali a biomasse. Domenico Pisano è un agronomo calabrese di 40 anni e nelle sue due aziende sta sostituendo progressivamente le coltivazioni di mais con la colza da cui trae il trinciato destinato ad “alimentare” questi impianti: «Riconosco che è un controsenso sottrarre coltivazioni al comparto alimentare per produrre energia. Ma io non sono padrone della mia azienda: lo è il mercato. E se il mercato va in quella direzione io, se voglio continuare a lavorare, devo seguirlo».
Nel 2007, anno in cui la Romania è entrata a far parte della Comunità Europea, il Governo sentenziò che solamente aziende di diritto romeno potessero acquistare o affittare terra su suolo nazionale. Ma le aziende straniere hanno trovato dei soci romeni aggirando l'ostacolo. Ora non ce ne sarà più bisogno perché dal 2014 la legge decadrà. Molte compagnie stanno già scalpitando come cavalli da corsa ai blocchi di partenza, pronte a sfrecciare verso la conquista di terre incolte. Tra queste anche alcune multinazionali, tra cui la Rabobank, colosso olandese, e la Lukoil, azienda petrolifera russa che già monopolizza le pompe di carburante romene. I due colossi lavorerebbero la terra per produrre grano. Il motivo? Un funzionario della Rabobank che sta facendo affari con Oletti ha commentato così l'investimento: “I cinesi hanno cominciato a mangiare pane. E dato che quando si parla di cinesi si deve moltiplicare per miliardi di soggetti, abbiamo bisogno di grandi quantità di terreno per produrre sufficienti quantità di grano”. Insomma, la Romania sta diventando il nuovo 'granaio d'Europa' destinato però al mercato orientale.
Tutto questo ha ovviamente fatto lievitare i prezzi di mercato dei terreni. Se fino a dieci anni fa un ettaro costava duecento euro appena, oggi siamo passati a una media di 2500. Che rimane sicuramente poco per un investitore straniero ma che è del tutto fuori portata per la maggior parte dei contadini il cui stipendio medio in campagna si aggira intorno ai 100 euro appena.
Nel suo studio “L'accaparramento di terre in Romania: minaccia per i territori rurali”, l'esperto francese Judith Bouniol sostiene che ciò che sta accadendo in Romania comporterà non solo il controllo delle risorse da parte di pochi grandi investitori, in larga parte stranieri, ma conferirà loro pure il potere di decidere sull'uso di questi terreni causando una progressiva perdita della sovranità alimentare da parte del governo. Parlare di land grabbing è complicato, ammette Bouniol, dal momento che le persone non sono costrette a lasciare la loro terra, anzi la popolazione rurale, in larga parte anziana e vulnerabile, è generalmente entusiasta quando arrivano massicci investimenti di questo tipo. In definitiva l'impresa si trova davanti a contadini ben contenti di guadagnarsi qualcosa vendendo o affittando la propria terra.
“Tuttavia” scrive Bouniol “la legalità apparente di questo fenomeno è guidato da un guanto di velluto che maschera l'aggressività di un pugno di ferro”. Intanto l'esodo verso le città è in continuo aumento (la popolazione rurale è passata da essere l'80% della popolazione nazionale al 45%) e si stima che il 6% (700.000 – 800.000 ettari) di suolo agricolo romeno sia già in mano a soggetti transnazionali.
Un processo visto con favore dal governo e sovvenzionato dall'UE. Dal 2000 al 2006 la Romania ha ricevuto 150 milioni di euro a fondo perduto per progetti di ammodernamento delle strutture agricole finiti quasi tutti in tasca ai progetti di larga scala.
Nel 2012 l'Europa ha coperto per intero il costo di affitto dei terreni favorendo con soldi pubblici le aziende agri-business oriented. Per non parlare di come sono state distribuite le risorse: su 500 aziende, l'1% ha ricevuto la metà dei fondi disponibili; all'altra metà è andata il restante 99%. Inoltre, quasi tutti i contributi per il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (2,9 miliardi) sono stati erogati a quelle imprese capaci di mettere sul tavolo una cifra pari a quella richiesta: ciò significa che i piccoli contadini, a cui spesso non vengono erogati prestiti dalle banche per mancanza di garanzie, non hanno beneficiato di nessun aiuto allo sviluppo. Se ci aggiungiamo che recentemente la Banca Nazionale Rumena (BNR) ha proposto di stabilire tasse punitive per forzare i piccoli agricoltori a fondersi o vendere le loro strisce di terra, si può dire che lo sviluppo agricolo romeno ha la strada dell'industrializzazione già ben spianata.