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December 18 2017
Domenica 17 dicembre, alla trasmissione televisiva "In mezz'ora", condotta da Lucia Annunziata, Luigi Di Maio, candidato premier per il Movimento 5 Stelle, ha detto esplicitamente di essere pronto a fare alleanze dopo le elezioni, se la sua formazione non arriverà a raccogliere abbastanza parlamentari per avere una maggioranza che consenta di governare da sola.
In quest'analisi - pubblicata su Panorama n. 52 (14 dicembre 2017) - Keyser Söze spiega il vicolo cieco nel quale è finito il movimento ispirato da Beppe Grillo.
Fra gli ultimi conigli usciti dal cilindro di Luigino Di Maio c'è l'obbligo di tenere chiusi i negozi durante le festività.
Un segno dell'apertura mentale del movimento grillino: il mondo va verso le liberalizzazioni; e loro, invece, aggiungono divieti a divieti, nel segno della decrescita felice. Il tutto all'insegna di un tatticismo esasperato: un occhiolino alla Chiesa, un altro alla Cgil, pensando ai loro voti.
In fondo un profilo culturale e programmatico dei 5 Stelle non esiste. È un impasto di populismo e demagogia che cambia a seconda del momento e degli stati emozionali del Paese.
Insomma, un'incognita che nelle situazioni difficili potrebbe anche diventare pericolosa. Non per nulla a livello internazionale e nell'establishment del Paese si sta profilando una netta preferenza per Silvio Berlusconi, anche in quegli ambienti in cui, in passato, il Cavaliere non aveva mai riscosso grandi simpatie.
Le missioni di Di Maio oltre Atlantico si sono dimostrate un mezzo fallimento: subito dopo, dagli Usa, infatti, sono uscite indiscrezioni per far sapere che da quelle parti si prediligerebbe una vittoria del centrodestra.
Voci che sono arrivate fino all'ambasciata americana di via Veneto. Come dire, anche a Washington, visti i grillini da vicino, sono venute meno le suggestioni. Più o meno lo stesso fenomeno che si è messo in moto in Italia: sentire Eugenio Scalfari spezzare una lancia in favore del Cav, per scongiurare il precipizio grillino, è un fatto storico.
Insomma, tutti si sono accorti che i 5 Stelle sono il partito degli arrabbiati e che con la rabbia non governi.
Il primo a saperlo è il fondatore, Beppe Grillo, che augura alla sua creatura un futuro di opposizione: "Dobbiamo" non si stanca di ripetere "diventare il nuovo Pci". Insomma, come il Pci di una volta, avere una funzione di stimolo dall'opposizione.
Ma come avviene per ogni apprendista stregone, ormai il meccanismo grillino è sfuggito di mano anche al suo inventore: sono aumentate le ambizioni, tipiche di ogni ceto politico. E le ambizioni rendono obbligata una politica delle alleanze anche per Gigino Di Maio.
Così, il candidato premier grillino ha cominciato a guardare verso la Lega e i Liberi e uguali di Piero Grasso. Solo che un'ipotesi del genere fa inorridire i leghisti: a parte Matteo Salvini, che la utilizza come spauracchio per impedire un abbraccio tra il Cav e Matteo Renzi, il Carroccio di governo, cioè i vari Luca Zaia e Roberto Maroni, considera questa prospettiva alla stregua di una barzelletta.
Più serio l'interesse degli "scissionisti" del Pd, che sul tema sono divisi.
La voglia di "revanche" contro Renzi di Pier Luigi Bersani e il giustizialismo di Grasso possono anche andare a braccetto con i grillini. Del resto Grasso è diventato presidente del Senato solo grazie ai voti dei seguaci di Grillo. Ma il più pragmatico della brigata Liberi e uguali, Massimo D'Alema, non ci pensa proprio a un'eventualità del genere. "Se dalle urne non uscirà una maggioranza" è il pensiero di Baffino "l'unica strada è un governo del Presidente, sostenuto da noi, dal Pd e da Berlusconi".
Per cui il movimentismo di Di Maio rischia di avere un'unico risultato, quello di innervosire l'ala dura e pura del Movimento, quella che considera ogni tipo di alleanza una contaminazione. "Sono i limiti della cliccocrazia, della scelta dei candidati fatta con un tasto del computer" si lamenta il senatore grillino Nicola Morra "non è detto che un metodo del genere garantisca la scelta migliore".