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March 16 2013
Un estratto da Almanacco dell'architetto (Proctor edizioni): 1300 pagine, due volumi, la partecipazione di 400 studi di architettura. Un viaggio nell'architettura per ripercorrere i progetti più significativi di Renzo Piano, visti dall'alto da una mongolfiera col figlio Carlo, autore.
di Carlo Piano
Caledonia è il nome latino che definiva anticamente l’odierna Scozia. Il vento soffia regolare verso est a 15 nodi, il mare è calmo e, ci informa il computer di bordo, la temperatura dell’acqua è di 25 °C.
Per affrontare l’avventura del Centro culturale Jean-Marie Tjibaou a Nouméa, nella remota Nuova Caledonia, serve anche un ripasso sulla natura dei venti e sull’altezza delle maree. Non soltanto per il nostro viaggio in mongolfiera, ma soprattutto perché durante i 26 mesi di lavori quattro tifoni, con raffiche a 250 chilometri l’ora, hanno investito il cantiere. Qui con la natura non si scherza. Comunque gli edifici in costruzione hanno superato i cicloni senza troppi danni. Ricordo che dall’ufficio di Parigi seguivamo al telefono gli eventi in diretta e con il cuore in gola. Nel Pacifico l’abitudine di costruire leggero è così radicata per una ragione basilare, che è appunto la ricorrenza di violentissimi tifoni. Ciò che si flette è più resistente di ciò che resta rigido, l’effimero vince sul duraturo. Lo stesso vale per i terremoti, che qui sono piuttosto frequenti: uno dei segreti per rendere gli edifici più stabili in caso di sisma è farli leggeri e quindi anche meno pericolosi quando la loro massa si mette in movimento. Costruendo pesante, qui prima o poi casca tutto.
Questo posto ricorda il paradiso perduto, solo il mare turchese della barriera corallina, strani pini dritti e alti fino a 40 metri, nient’altro che paesaggi naturali. Che hai pensato la prima volta che hai visto la Nuova Caledonia?
Prima di partecipare al concorso per questo centro culturale, che è dedicato alla cultura kanak, sono venuto a passeggiare sul luogo dove si sarebbe sviluppato il progetto, quella striscia di terra simile a un paradiso terrestre che vedi laggiù e che si stende su una baia interna silenziosa e serena. La Penisola di Tina si affaccia da un lato sul mondo aperto del Pacifico, dove spirano gli alisei, e dall’altro su una sorta di laguna interna molto tranquilla, quasi immobile. Un luogo incantato, unico per la sua duplice natura: attiva da una parte e contemplativa dall’altra. Due facce che corrispondono ad altrettante identità: quella della vita collettiva, della comunicazione, della presenza del Centro Tjibaou visibile senza ambiguità, e quella della riflessione, della saggezza, della modestia del luogo. Ci siamo resi subito conto che in questa zona gli alisei soffiano costantemente per quattro mesi all’anno e ci è venuta l’idea di progettare giocando con il vento e con il suo rumore, di utilizzare come materiale il legno. L’altra cosa che ci è stata immediatamente chiara è che bisognava «pensare kanak», che prima di mettersi a progettare si dovevano lavare i panni nell’Oceano Pacifico. Ho dovuto imparare tante cose, fino a qualche mese prima sapevo pochissimo di questa popolazione.
Anch’io non sono molto informato. Ma tu non ne sapevi proprio niente?
Conoscevo alcune nozioni base, quelle che sanno tutti. Per esempio che i kanaki, assieme ai maori e agli aborigeni, costituiscono la popolazione delle isole del Pacifico.
Ma come sei riuscito a dialogare con questa cultura?
Questa cultura è legata al gesto e al movimento più che ai manufatti. È una cultura fisica, associata all’azione, anche se ovviamente esistono forme di arte e di artigianato simili alle nostre. Quindi si trattava di progettare un centro culturale completamente diverso da quelli occidentali.
Le costruzioni tipiche di questo spicchio di mondo nascono in armonia con la natura, vengono usati i materiali deperibili che la natura stessa offre. Ho capito bene?
La continuità del villaggio nel tempo non è legata alla durata del singolo edificio quanto piuttosto alla conservazione di una topologia e di uno schema costruttivo.
I kanaki, ma anche gli aborigeni e i maori, hanno da sempre costruito «case musicali» che emettono suoni quando sono attraversate dalle folate di vento. Proprio come queste 10 «capanne» in legno che costituiscono il centro culturale.
Di sicuro il centro non poteva essere racchiuso e concluso in una sede monumentale, infatti non è un singolo edificio ma un insieme di spazi alberati e di villaggi, di funzioni e di percorsi, di pieni e di vuoti.
Il secondo villaggio che, oltre a una sala conferenze e una biblioteca multimediale, contiene uffici dove lavorano storici e ricercatori. Il terzo villaggio, al termine del percorso, è invece dedicato alle attività creative. Lo avevamo detto: la cultura kanak è collegata al movimento più che a quadri o statue. Le capanne ospitano studi di danza, musica, scultura e pittura.
Quest’avventura nasce al confine tra architettura e antropologia. Si trattava di cogliere gli elementi fondamentali, sostanziali di questa cultura, e non di copiarne pedissequamente l’espressione, stando attenti a non cadere nella trappola del romanticismo, del mimetismo, della finzione o, peggio, del folclore.