News
January 09 2018
La prima conseguenza visibile del cambio di rotta della casa farmaceutica che ha messo a punto il Viagra sono i 300 posti di lavoro tagliati in tre sedi, tra il Massachusetts e il Connecticut nell'ambito delle neuroscienze. Ufficialmente si tratta di nient'altro che una "riallocazione" di risorse per concentrare gli sforzi in quelle aree dove la competenza dell'azienda è più forte. Così hanno dichiarato i vertici nel comunicato in cui annunciavano di abbandonare la ricerca di cure per due importanti malattie neurodegenerative: Alzheimer e Parkinson.
L'azienda aveva investito pesantemente in questi settori, ma alcuni degli investimenti si sono rivelati deludenti. In particolare nel 2012, insieme a Johnson & Johnson, Pfizer ha interrotto il lavoro sul farmaco bapineuzumab, che non si è dimostrato in grado di aiutare i pazienti con Alzheimer da lieve a moderato nel suo secondo ciclo di studi clinici.
La resa di Pfizer potrebbe far pensare che in generale la ricerca farmacologica abbia deciso di passare la mano su una malattia che resta ancora senza cura e che conta nel mondo quasi 50 milioni di malati, oltre 600 mila in Italia. Ma non è così. Molti studi clinici stanno infatti mettendo alla prova molecole pensate per combattere la malattia e non più solo intervenire sui sintomi, come fanno i farmaci attualmente disponibili, che nella migliore delle ipotesi si limitano a rallentare un po' la perdita di memoria e gli altri deficit cognitivi causati dalla malattia.
Farmaci diversi agiscono su meccanismi diversi per assicurare il medesimo risultato: contrastare gli effetti della malattia sul cervello di chi ne è affetto. Trattandosi di una malattia che colpisce soprattutto gli anziani, già arrivare a posticiparne l'esordio di 5 anni grazie a terapie specifiche potrebbe essere considerato un grande successo perché eliminerebbe il problema per una grossa fetta di persone destinate ad averla, che morirebbero prima di qualche altra causa. La lotta consiste nel trovare il modo di prevenirla o rallentarla molto, visto che il traguardo più difficile sembra essere quello di invertirne gli effetti. Le speranze puntano su anticorpi monoclonali, inibitori di alcuni enzimi e anche farmaci pensati per altre malattie, prima fra tutte il diabete.
L'ipotesi a tutt'oggi più accreditata è quella che vede nei depositi di frammenti di proteina Beta Amiloide, che accumulandosi formano autentiche placche nel cervello dei pazienti, la causa della maggior parte dei sintomi della malattia. Una strategia terapeutica prevede allora di bloccare l'attività degli enzimi (beta e gamma-secretasi) che rendono possibili questi accumuli. Diversi modulatori della beta-secretasi o della gamma-secretasi sono allo studio. Un recente studio dell'Università della Florida, i cui risultati sono appena stati pubblicati sul Journal of Experimental Medicine, sostiene che proprio i modulatori della gamma-secretasi potrebbero rappresentare una buona strada da seguire.
Ci sono molte forme di Beta Amiloide prodotte nel cervello, ma gli scienziati riconoscono l'accumulo di una forma in particolare, Amiloide Beta 42 (Abeta 42), che è composto da 42 amminoacidi, come chiave nella promozione della malattia di Alzheimer. I peptidi di Abeta, o catene di amminoacidi, sono prodotti da un enzima chiamato gamma-secretasi. I modulatori della gamma-secretasi hanno dimostrato di abbassare i livelli di Abeta 42 ma di aumentare i livelli di peptidi Abeta più corti, formati cioè da catene di amminoacidi più corte. Alcuni studi avevano suggerito che l'aumento dei peptidi più corti potrebbe essere dannoso. Ma il lavoro di Todd Golde e colleghi sui topi e sui moscerini della frutta dimostrerebbe invece che questi hanno addirittura un effetto protettivo dagli effetti tossici della Beta Amiloide 42.
Un altro modo per colpire le placche di Beta Amiloide consiste nell'armare il sistema immunitario e renderlo più idoneo a combattere l'attacco della proteina. Per farlo si utilizzano degli anticorpi monoclonali, che hanno il ruolo di aiutare il sistema di difesa dell'organismo a sbarazzarsi delle placche proteiche. Qualche nome? Solanezumab pare aver dato qualche beneficio a pazienti con forme lievi di Alzheimer, Aducanumab è un altro farmaco promettente. E' allo studio anche l'ipotesi di un vaccino, strada già tentata e poi abbandonata.
Un'altra anomalia che si verifica nel cervello dei malati di Alzheimer è la formazione di grovigli di minuscole fibre di un'altra proteina, denominata Tau. La formazione di questi grovigli comporta la distruzione interna dei neuroni e quindi la loro morte. Alcuni ricercatori stanno perciò focalizzando la propria attenzione sulla possibilità di prevenire l'accumulo di quest'altra proteina chiave. Anche in questo caso si sta studiando inoltre la possibilità di impiegare un vaccino per rendere le persone immuni.
L'attacco del cervello da parte di queste proteine scatena una reazione infiammatoria che, lungi dal contrastarne l'azione, sembra purtroppo favorire l'effetto di distruzione dei neuroni. Perché allora non combattere proprio l'infiammazione, nella speranza che ciò renda più blandi i sintomi della malattia? Si stanno provando molecole singole e anche cocktail di farmaci per uso orale e per via inalatoria, per capire se questa ipotesi è fondata.
Un altro aspetto accertato dell'Alzheimer è l'insufficiente neurotrasmissione di serotonina. Alterare l'attività della serotonina nel cervello sembra offrire un aiuto per le difficoltà cognitive degli schizofrenici, potrebbe quindi forse dimostrarsi utile anche per quelle incontrate dai malati di Alzheimer. Trial clinici su alcuni farmaci mirati a questo scopo sono attualmente in corso.
E' di questi giorni la pubblicazione sulla rivista Brain Research di uno studio che testimonia significativi miglioramenti nella perdita di memoria dei topi con Alzheimer grazie a un farmaco per il diabete di tipo 2. Vista l'assenza di novità nella cura di questa malattia negli ultimi 15 anni, l'idea di provare a utilizzare, nella terapia dell'Alzheimer e di altre forme di demenza, farmaci sviluppati per trattare altre patologie non appare peregrina.
La molecola in questione va sotto il nome di liraglutide ed è un farmaco a triplo agonista che agisce su tre fattori di crescita: GLP-1, GIP e glucagone. Su topi transgenici, che avevano la mutazione nei geni che provocano l'Alzheimer ereditario, trattati con il farmaco memoria e apprendimento risultavano migliorati, la quantità di placche di amiloide nel cervello era ridotta così come l'infiammazione cronica e lo stress ossidativo e la perdita di cellule nervose era rallentata.
"Questi risultati molto promettenti", ha dichiarato Christian Holscher della Lancaster University del Regno Unito, autore principale dello studio, "dimostrano l'efficacia di questi nuovi farmaci multi-recettore che in origine erano stati sviluppati per curare il diabete di tipo 2, ma che hanno mostrato significativi effetti neuro-protettivi in diversi studi". Del resto il diabete di tipo 2 è un fattore di rischio per l'Alzheimer ed è stato coinvolto nella progressione della malattia e un'alterazione dei livelli di insulina è stata collegata a processi cerebrali degenerativi in entrambe le malattie.
E se curare il diabete fa bene al cervello, anche proteggere il cuore può sicuramente essere utile. Già perché l'altro grosso campo di studi sulla prevenzione e la cura dell'Alzheimer è quello che riguarda lo stile di vita. Il rischio di sviluppare l'Alzheimer risulta infatti aumentato in presenza di alcune patologie che coinvolgono il cuore come l'ipertensione, l'ictus, il diabete appunto e il colesterolo alto. I ricercatori stanno perciò valutando il ruolo dei farmaci per la malattia cardiaca nella cura dell'Alzheimer oltre a cercare di stabilire se uno stile di vita sano per il cuore, con esercizio fisico quotidiano e una dieta (mediterranea) sana, possa prevenire o ritardare l'insorgenza della malattia.