ANSA /Giulia Muir
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Andreotti, uomo-simbolo della prima Repubblica

Esattamente sessant’anni fa l’Italia si apprestava ad andare al voto. La legge elettorale con la quale gli italiani si dovevano cimentare non era il Porcellum ma la Legge Truffa, quando si dice i ricorsi storici. Un giovane Giulio Andreotti, numero due nella lista della Democrazia Cristiana nel Lazio, si apprestava ad affrontare la campagna elettorale per i piccoli comuni del frusinate. I manifesti attaccati ai muri di Sora annunciavano per la sera che a chi si fosse presentato al comizio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sarebbe stato garantito un servizio completo: pagnottelle gratuite, birra a metà prezzo e la visione sul palco della diva cinematografica Silvana Pampanini, in carne e ossa, accompagnata da alcune ballerine. Gli abitanti di Sora la sera si precipitarono in massa per assistere allo spettacolo. Quando tutto sembrava dovesse andare per il meglio ecco l’imprevisto. La birra cominciava a dare i suoi effetti e il palco fu preso d’assalto, il buon Giulio immediatamente riuscì a mettersi al riparo lasciando la povera Pampanini urlante in preda alle mani dei sorani.

Questo è uno dei numerosissimi aneddoti del Divo Giulio. Una carriera iniziata a soli 27 anni con l’elezione all’Assemblea Costituente; a 28 fu nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio grazie al suo mentore, Alcide De Gasperi, conosciuto casualmente nel 1942 nella biblioteca Vaticana. Ma la vera scalata al potere iniziò negli anni Settanta. Questo perché proprio quando, sempre nel 1953, bisognava raccogliere l’eredità di De Gasperi, avvenne quello che mai avrebbe immaginato. Lo statista decise di puntare su Amintore Fanfani, colui che sarebbe diventato il suo nemico.

Le elezioni avevano visto la DC perdere consenso e la destra prendere 3 milioni e mezzo di voti. Fanfani proponeva un’alleanza con i socialisti, Andreotti era per considerare i voti di destra: “La lotta anticomunista dev’essere l’atto preminente, se non esclusivo del partito democristiano, e per condurla con successo non si possono escludere alleanze di ordine tattico, ovunque possano trovarsi”. Al congresso di luglio del ’54, De Gasperi, che di lì a un mese sarebbe scomparso, dimostrò di credere più in Fanfani ritenendolo più capace in quel momento. Fanfani divenne padrone del partito e Andreotti fu costretto all’esilio.

Nel 1968 arriva il suo momento peggiore, l’allontanamento dalla corrente dei dorotei della quale faceva parte. La decisione fu comunicata tramite il suo luogotenente Franco Evangelisti per telefono: “dovresti dire a Giulio di non venire più alle nostre riunioni… tu devi capirci”. Per la prima volta, dopo 22 anni, nacque un governo senza la presenza di Andreotti al suo interno, nessun incarico di ministro o di sottosegretario, questo avevano chiesto gli alleati della DC. Come magra consolazione gli fu assegnata la nomina di presidente del gruppo parlamentare alla Camera. Sembrava di assistere all’inizio della fine politica di uno che sembrava promettere tanto.

E, invece, come l’araba fenice, eccolo risorgere dalle sue ceneri. Nel luglio del 1970 la prima chance; l’Italia viveva uno dei suoi momenti più difficili con il Principe Junio Valerio Borghese che si apprestava a tentare il colpo di Stato. Saragat decide di affidare l’incarico di formare il governo proprio ad Andreotti. Quando tutto sembra andare per il meglio ecco che il partito del Capo dello Stato, il PSDI, giudica il suo programma troppo vago e decide di negargli la fiducia. Andreotti non demorde, in silenzio raccoglie le carte e abbandona senza polemiche. Ma la riscossa è ormai vicina. Il centrosinistra è in piena crisi, il rischio di elezioni anticipate sempre più concreto; Andreotti dal suo ufficio in via della Missione decide di mettersi al servizio del partito, riceve tutti, anche quelli che fino a quel giorno lo avevano avversato. Con grande abilità riesce a ricucire la situazione e l’apoteosi arriva nel dicembre del ’71 con le elezioni alla Presidenza della Repubblica. Candidato ufficiale dello Scudo Crociato è Amintore Fanfani, il suo acerrimo nemico. Tutto il partito si affida compatto a lui e Andreotti da grande tessitore parlamentare, dopo 23 scrutini, il 24 dicembre fa eleggere Giovanni Leone (l’unico vero amico all’interno del partito e con il quale condivideva la passione per le icone greco-ortodosse). La vendetta a Fanfani è servita. Passano pochi mesi e Leone ricambia il favore affidandogli l’incarico di formare il nuovo governo nel febbraio del 1972. Le elezioni seguenti furono un successo per la DC e per la corrente andreottiana.

Unico incarico che non ha mai voluto ricoprire è stato quello di segretario del partito. Sapeva benissimo che erano solo guai e le inchieste per tangenti che si sono succedute negli anni, dallo scandalo INGIC, al caso del banchiere Giuffrè, dalla vicenda della costruzione dell’aeroporto di Fiumicino per finire con Tangentopoli, gli hanno dato ragione.

I suoi nemici dicevano: “E’ troppo bravo e noi siamo stati abbastanza asini da lasciarlo sedere su quella dannata poltrona, davanti alla scrivania di Giolitti, accanto alla bandiera”.

Il resto è storia.

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