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November 03 2024
In questi giorni sto dando un forte contributo alla radio con la trasmissione tv Cari amici vicini e lontani, su Rai Storia. Mi rendo conto che è una rete un po’ sacrificata, ma siamo in prima serata. Rileggo con entusiasmo i miei 60 anni di radio in 12 puntate». Per i 100 anni di questo mezzo, Renzo Arbore ha aperto le porte di casa a Panorama. Ne è nato un racconto della sua vita come fosse una serie Netflix divisa in tre stagioni. «Sono stato prima di tutto un ascoltatore» racconta Arbore. «Poi, ne sono divenuto protagonista nel momento in cui le trasmissioni, per combattere la concorrenza della televisione, dovettero ringiovanire. Oggi, invece, vesto i panni del critico riflessivo».
Come definirebbe la radio della prima stagione della sua vita?
Era una vera consolazione. In pieno dopoguerra non c’era altro mezzo di svago. Al cinema si poteva andare raramente e i film del neorealismo italiano erano tristi. L’unico media per divertirsi un po’ era la radio e la musica che trasmetteva.
Nel Dopoguerra si parlava il dialetto regionale eppure la radio era molto seguita.
Oltre a essere consolatrice, era unificatrice e per finire anche educatrice. Alla radio sentivamo un italiano forbito in un momento in cui in tutte le regioni d’Italia i ragazzi parlavano inflessioni diverse. In quel periodo nacquero tante emittenti locali che tentavano di migliorare il linguaggio degli ascoltatori.
Ne può citare qualcuna?
Radio Napoli, Radio Bari, Radio Roma, Radio Bologna. Tutte facevano trasmissioni unificatrici. In quel periodo c’era un solo refrain in Italia: «L’ha detto la radio, quindi è vero». Il popolo credeva a quello che usciva dall’altoparlante.
Nel 1954, però, nelle case degli italiani arriva la televisione...
La radio rischiò di sparire, ma non fu così. Dal 1954 al ’64 sulle sue frequenze c’era l’intrattenimento sportivo: calcio e ciclismo la tennero in vita.
Quali furono le trasmissioni sportive che salvarono la radio in quel decennio.
Il calcio per noi bambini aveva la voce del grande Niccolò Carosio, radiocronista importantissimo e autore di uno slogan memorabile: «Quasi goal». Invece il ciclismo era affidato al racconto di Sergio Zavoli, che poi è diventato presidente della Rai e anche senatore. Zavoli faceva per radio Processo alla Tappa, seguiva il Giro d’Italia che noi tanto amavamo.
Quali sono stati i cambiamenti portati da lei e Gianni Boncompagni?
Fummo in grado di creare un nuovo target radiofonico. Era il gruppo di ragazzi dagli 11 ai 19 anni. Li chiamammo «Generazione Bit».
Perché lei e Boncompagni sceglieste la parola «beat» per definire i giovani?
Approfittando del programma Bandiera gialla, rubai, con Boncompagni, la parola «Beat» alla «Beat generation» americana di San Francisco. Non volevamo chiamare i nostri teenager «yé-yé», che era la generazione di Rita Pavone. Quello dei Beat era un target che ho continuato a seguire anche con un altro programma chiamato Per voi giovani, durato tre anni e mezzo.
Il 1964 è l’anno del grande cambiamento con l’arrivo di nuove figure direttive arrivate in radio con il compito di aiutarla a sopravvivere.
Si chiamavano Leone Piccioni, Luciano Rispoli, Maurizio Rigatti e tanti altri, venivano dalla televisione. Nacque un palinsesto per Radio Rai che fu il più fortunato di quegli anni con la scoperta di grandi personaggi.
Sta dicendo che il successo arrivava tramite la radio. Ma è stato così per tutti?
Certo! Anche Alberto Sordi è nato in radio. Senza dimenticare la trasmissione Buon pomeriggio condotta da Maurizio Costanzo e Dina Luce. Fu uno dei primi talk show della radio. Poi, Hit parade con Lelio Luttazzi. Non dobbiamo dimenticare l’importante varietà che si chiamava Batte quattro con Gino Bramieri che andava in onda al sabato mattina. In quegli anni c’era Corrado che cominciò con La Corrida e Mike Bongiorno con la trasmissione Attenti al ritmo. Poi Enzo Tortora con Il gambero.
E i grandi talenti musicali come riuscivate a scoprirli?
Io e Boncompagni fummo i primi deejay. Lanciavamo i dischi filtrando i gusti della gente. Li sceglievamo anche contro il parere delle case discografiche, facendo arrivare in classifica inediti personaggi che facevano nuova musica: da Lucio Battisti a Patty Pravo.
Come avete fatto, lei e Boncompagni, a scoprire Battisti?
Una volta una casa discografica mi disse che c’era un ragazzo che faceva musica nuova. A parlarmene fu una ragazza dalla quale mi feci dare il suo numero di telefono. Lo chiamai e poi, con Gianni, lo convinsi a cantare. Così è nato Lucio Battisti.
E per Patty Pravo cosa successe?
La scoperta avvenne al «Piper». Incontrammo per caso questa bella ragazza che ballava benissimo. Alberico Crocetta, il patron della discoteca, spesso andava a Londra. Ogni volta ci dava grandi spunti sui nuovi talenti.
Dopo Bandiera gialla nacque il primo varietà per le radio private. Lei era da solo in quell’avventura oppure con Boncompagni?
Con Gianni abbiamo creato Alto gradimento. Un programma improvvisato con due coautori molto bravi, Mario Marenco e Giorgio Bracardi. Era il 1978. Fu allora che inventammo un nuovo modello di varietà per le prime radio private.
Ci racconta del suo incontro con Paola Cortellesi?
Per me Paola è una donna speciale. Pochi lo ricordano, ma era lei che cantava la canzone Cacao Meravigliao, sigla finale della mia trasmissione Indietro tutta. Adesso è una regista acclamata. Sono felice di averla incontrata per primo.
Siamo nel pieno della sua terza stagione. E la radio dov’è?
La tecnologia l’ha trasformata, specialmente nella fruizione: bastano un paio di cuffie e uno smartphone. Sono nate tantissime frequenze digitali che si adattano a ogni tipologia di ascoltatore. Ma il concetto di radio va. Non l’ha ucciso la tv e nemmeno il web ci riuscirà, anzi. È eternamente giovane e sfido chiunque a dire il contrario.