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December 16 2018
“Tra il 2014 e il 2017 è aumentata la concessione di licenze, eppure gli omicidi legati ad armi legalmente detenute sono diminuiti su scala nazionale mediamente della stessa percentuale”. A dirlo è Paolo De Nardis, ordinario di Sociologia alla Sapienza di Roma, che ha coordinato la prima ricerca in Italia sul possesso legale di armi. Il quadro che emerge è variegato a seconda delle zone del Paese, ma alcuni dati indicano una tendenza: dal Dopoguerra è cambiato il rapporto degli italiani con pistole e fucili, e là dove ce ne sono di più è inferiore il numero di delitti.
I dati della ricerca fotografano la situazione, alla vigilia dell’atteso dibattito sulla legittima difesa, che il Governo e in particolare il vicepremier Salvini vorrebbe far approvare a inizio 2019.
Dal 2007 al 2017 solo il 5% circa degli omicidi avvenuti in Italia è commesso con armi legalmente detenute. Di questi circa il 12,28% è costituito da atti di eutanasia, con lo scopo di alleviare le sofferenze della vittima, spesso il coniuge o un parente stretto. I dati sono frutto della comparazione tra gli archivi del ministero dell’Interno e le statistiche Istat fino al 2017, anno delle ultime rilevazioni disponibili. Dallo studio Sicurezza e legalità: le armi nelle case degli italiani dell’università La Sapienza emerge anche un altro elemento: “Nonostante le accese polemiche solo il 2,45% degli omicidi oggetto della nostra analisi scientifica si è verificato per eccesso di difesa. Un dato che ridimensiona la discussione sulla difesa legittima e che riguarda in realtà pochissimi casi” spiega a Panorama.it il professore e curatore dello studio.
“Questo non significa sminuire il numero delle vittime, perché anche solo un morto è un dato negativo, ma certo mostra come sulla legittima difesa si tende a galvanizzare le rispettive tifoserie. Io non do valutazioni nel merito del disegno di legge, ma da sociologo posso dire che l’incidenza dei fatti di sangue commessi con armi legalmente detenute è minima rispetto al totale” aggiunge il docente.
Dalla comparazione dei dati è emerso anche che il 68% degli eventi delittuosi è un omicidio familiare e in quasi la metà dei casi l’uccisore si è suicidato. “Molti casi avvengono in ambito familiare e si tratta nel 6/7% di omicidi di genere, dunque femminicidi” spiega De Nardis.
Lo studio, primo nel suo genere nel nostro Paese, mostra una forte differenziazione a livello regionale nella distribuzione delle armi. “Dall’analisi abbiamo notato come ad un certo numero di licenze venatorie o sportive corrisponde un numero di delitti molto basso, mentre in altre zone dove la percentuale di diffusione di licenze per armi è inferiore, si registrano maggiori vittime” spiega De Nardis, che aggiunge: “I nostri studi e grafici indicano che è il nordest la zona col maggior numero di armi legalmente detenute per motivi sportivi o venatori”.
Cosa significa?
“Le due regioni esemplificative sono Veneto e Calabria. Nella prima ci sono molte licenze, ma meno delitti; nella seconda, invece, il quantitativo di armi che risulta regolarmente in possesso è inferiore, ma il numero di omicidi è maggiore. Questo dicono i dati ufficiali, anche se non va dimenticata una cosiddetta ‘cifra oscura’, ossia quella che riguarda chi possiede un’arma senza denunciarla” dice il sociologo, che punta l’attenzione sul problema dei controlli.
“Al numero di omicidi nel suo complesso vanno sottratti quelli relativi ai casi di eutanasia o suicidio. Su ciò che resta va fatta un’analisi che tenga in considerazione anche le situazioni legalitarie, ossia i controlli, che risultano molto differenti a seconda delle regioni” spiega il professore.
“Il maggior monitoraggio avviene senz’altro nel lombardo-veneto, dove pure c’è una maggiore domanda e presenza di licenze per detenzione di armi, che tra l’altro è in aumento per motivi venatori e sportivi. Da questo punto di vista non va escluso che molti si avvicinino all’arma ad uso sportivo a scopo autopedagogico: come un tempo si imparavano le arti marziali per potersi difendere in caso di bisogno, anche oggi più di uno sembra voler imparare a usare le armi non tanto per offesa, quanto per difesa, in caso di necessità” dice De Nardis.
Per questo sono importanti i controlli ed è necessario che le visite siano rigorosissime, prima del rilascio di una licenza. A mio avviso andrebbe fatta anche una valutazione psicanalitica, oltre a un controllo psicofisico” aggiunge il sociologo.
Nel 45% dei casi di omicidi erano presenti delle criticità che avrebbero potuto far immaginare il rischio: nel 5,6% degli episodi chi ha ucciso era anche stato precedentemente denunciato o diffidato, e nell’1% era stato oggetto di trattamento sanitario obbligatorio. E’ ancora la ricerca a mostrare come 22% dei casi l’omicida ha tenuto dei comportamenti indicativi (maltrattamenti, atti di violenza fisica o verbale, etc.), mentre in oltre il 15% dei casi mostrava problemi psicologici rilevanti (depressione, paranoia, etc.). Un altro fattore spesso scatenante sono anche le difficoltà economiche (in oltre il 15% dei casi).
“Il gioielliere che chiede il porto d’arma per una eventuale legittima difesa non è una novità, c’è sempre stato. In questi casi l’arma dovrebbe essere solo un deterrente e la legittima difesa non dovrebbe essere che l’estrema ratio, anche perché l’arma va saputa usare - dice De Nardis - L’idea di potersi difendersi da soli, però, può far venire in mente gli Stati Uniti, dove è sufficiente la maggiore età per poter comprare una pistola o un fucile. In realtà il contesto è molto differente”.
La ricerca conferma come in Italia esista una storia venatoria importante, soprattutto in certe regioni dove la caccia rappresenta una tradizione consolidata e tramandata a livello familiare. “A ciò si aggiunga che il rapporto tra l’italianità, intesa come personalità di base dell’italiano, e le armi è molto differente rispetto a quella statunitense. Nel nostro Paese ormai da secondo Dopoguerra le armi non sono più identificate a strumenti di morte, mentre era così ancora fino agli anni ’40 e ‘50” spiega il professore di Sociologia.
Ma chi si arma oggi? “E’ un aspetto che vorremmo indagare ulteriormente, ma possiamo dire che si tratta senz’altro soprattutto di giovani. A questi si aggiungono anche 50enni o 60enni che hanno una licenza da tempo” conclude De Nardis.