Lifestyle
September 09 2012
Il periodo vacanziero di solito è un modo per approfondire con maggiore calma alcuni argomenti lasciati in sospeso nei mesi precedenti a causa del troppo lavoro e del troppo poco tempo libero.
Il mio argomento è stato Jean-Michel Basquiat. Complice l'ultimo post pubblicato in occasione delle Olimpiadi di Londra , ho sentito il bisogno di sapere di più su un artista che ha lasciato dopo la sua morte - avvenuta per overdose a soli 28 anni - più di mille disegni e altrettanti dipinti realizzati in meno di dieci anni.
Solitamente quando si parla di un artista famoso lo si fa alla vigilia di una importante mostra, o di qualche significativa retrospettiva, o ancora a sottolineare qualche anniversario, di nascita o di morte che sia.
La mia volontà invece è figlia della curiosità scaturita a seguito del documentario The Radiant Child, di Tamra Davis pubblicato nel 2010 e recuperabile tranquillamente su YouTube diviso in parti. L'autrice, amica intima di Basquiat, ha deciso di montare molti frammenti video, tra cui una intervista all'artista stesso, che narrano in maniera efficace non solo la sua rapida ascesa e l'altrettanto veloce declino, ma l'intero background Newyorchese nel quale tutto questo ha potuto prendere forma.
La Grande Mela sul finire degli anni settanta era un vero e proprio magma: nasceva Mtv, la musica Pop sfornava artisti come Madonna, l'arte aveva rappresentanti del calibro di Andy Warhol e Keith Haring. La cultura Hip Hop iniziava a diffondersi attraverso il Rap, la breakdance e la Graffiti art. Tutto quello che contava sembrava nascere in un nodo concentrato di strade.
Per Basquiat fu il terreno perfetto per mettere radici.
Descrivere quello che passa nella mente di un genio - perchè è di questo che si tratta - è quasi impossibile, ma molti indizi sono riassunti nelle opere che produce. Considerate l'arte di Basquiat come dell'ottimo e raffinato Jazz di Miles Davies, Coltrane o Gillespie. Dipingere per lui era come comporre un brano Jazz o Beebop: colpi decisi di pennello, a segnare sulla tela la nota giusta.Nessuna incertezza; la mano mossa da una istintiva premeditazione.
"Da quando avevo 17 anni, ho sempre pensato che sarei diventato una star. Dovrei pensare ai miei eroi, Charlie Parker, Jimi Hendrix... avevo un'idea romantica di come le persone diventassero famose."
Nelle figure e nelle parole che compongono fitte le enormi tele, non c'è spazio nemmeno per un respiro: la mente di Basquiat lavorava in multitasking: leggeva tutto ciò che gli passava di mano, ascoltava, osservava e viveva il mondo che all'apice della sua fama, letteralmente gli ruotava attorno.
Complice la madre di origine portoricane, che fin da bambino lo portava a vedere mostre e musei e dal padre di Haiti, verso il quale nutriva un rispetto e un amore sconfinato, che non lo ha mai ostacolato. Quindi non c'è da stupirsi se nei suoi dipinti è facile imbattersi in frasi scritte in spagnolo, creolo, francese o inglese - tutte lingue che conosceva bene - o in chiari riferimenti a maestri contemporanei o del passato come Leonardo da Vinci, o Jean Dubuffet o ancora Jackson Pollock, o Picasso, che hanno lasciato tracce indelebili nella sua mente.
L'incessante volontà di sottolineare la forte appartenenza alle sua vere radici e la denuncia costante della forte discriminazione verso la gente di colore, completano il diorama. Non per nulla per un periodo usava firmare le proprie opere con lo pseudonimo di AARON, in onore del giocatore di baseball Hank Aaron, che grazie al suo talento fece vincere alla sua squadra più di un titolo, ma a causa delle leggi vigenti in alcuni stati del sud degli Stati Uniti, non poteva pranzare al ristorante coi suoi compagni di squadra, nè viaggiare sullo stesso autobus, poichè di colore.
La fama, complice la forte amicizia con Warhol, portò con sè il denaro, il successo e molti problemi: il Jet set, sebbene sembrasse non piacere molto a Basquiat, lo coinvolse comunque, incastrandolo in un giro di false amicizie, benessere senza limiti e la quotidiana frequentazione con l'eroina.
Dopo molti tentativi di disintossicazione, ricevette - o per meglio dire si autoinflisse - il colpo letale dopo aver ricevuto la notizia della morte del suo fraterno amico Andy Warhol, dalla quale non si rialzò più.
L'ultima sua mostra, dopo due anni di assenza dalla scena artistica, è il preludio alla tragedia: dalla fitta trama di messaggi e figure, si aprono improvvisamente enormi spazi vuoti, alternati da inquietanti messaggi ripetuti all'infinito, come in Eroica II dove compare come un mantra la scritta Man dies.
L'opera più eloquente e, al tempo stesso, messaggera premonitrice è senza dubbio Riding with death; sullo sfondo nudo color verde oliva, si stagliano le figure essenziali dei protagonisti dell'opera: un corpo marrone a cavallo di uno scheletro che procede carponi. In questa tela - probabilmente una delle sue ultime - sono riassunte sia le conseguenze inevitabili di ciò che accadrà, sia l'animo vulnerabile dell'artista che, di fatto, lo ha fatto cavalcare fianco a fianco della morte, per tutta la vita.