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September 18 2013
Certo, il titolo è giusto: Da Donatello a Lippi. Officina pratese ben si adatta a indicare quella stagione artistica che vide a Prato, come in una factory ante litteram, i migliori talenti del nostro Rinascimento. Eppure la mostra, che inaugura la riapertura del museo di Palazzo Pretorio (nella città toscana dal 13 settembre fino al 13 gennaio), si potrebbe ribattezzare «Sconfinamenti»: per la provenienza degli artisti, per il tipo di opere, per la ricomposizione di polittici che tornano dall’estero, per altre invasioni di campo.
Nel Duomo di Prato già dalla fine del XII secolo si venerava la reliquia mariana della Sacra cintola, ma fu solo nel ’400 che intorno a quel simbolo si vollero commissionare in gran quantità affreschi, dipinti e arredi degni e superbi. Così furono chiamati i più grandi artisti, che arrivarono, appunto, sconfinando: da Firenze, dalla sua provincia, da quella di Arezzo, oppure freschi reduci da viaggi a Venezia. Erano Donatello, Michelozzo, Masodi Bartolomeo, Paolo Uccello, Filippo Lippi. Ma sconfinanti erano pure le loro opere. A cominciare da quelle di Filippo Lippi, «dove la dimensione iconica e narrativa sfumano l’una nell’altra», come nota Andrea De Marchi (curatore della mostra insieme con Cristina Gnoni); e dove non di rado spunta un comprimario, o un protagonista, che guarda fuori dal quadro in direzione dello spettatore, come a chiamarlo dentro. Succede nel tondo della Galleria Palatina, forse l’opera più emblematica in mostra. E si sconfina pure nella Natività di Karlsruhe di Paolo Uccello, tanto per fare un altro esempio, dove il soggetto principale sembra elevato improvvisamente, come da un ascensore, al secondo piano della composizione.
Queste invasioni di campo (e le molte altre alle quali il breve ma denso saggio di De Marchi sul genius loci, nel catalogo Skira, potrà fare da agile guida) erano già compiute nella precoce lezione di Donatello, come nel capolavoro giovanile della Madonna e due angeli(pure in mostra), là dove questi ultimi, plasmati prima del 1420, scivolano fuori dalla nicchia loro destinata: a mettere in comunicazione lo spazio dell’opera con quello dello spettatore e ad anticipare quell’irrequieta eleganza che avrebbe caratterizzato tutta la produzione successiva dell’artista.
Ai capolavori oggi sparsi fra i musei di mezzo mondo la rassegna aggiunge opere che erano a Prato e che sono state smembrate, riunendo pale e predelle ora divise fra collezioni diverse (come la bellissima Assunta di Zanobi Strozzi, dipinta per il Duomo e oggi a Dublino). E offre un motivo di scoperta per due fra i più validi artisti che intorno a Filippo Lippi si formarono, ovvero il Maestro della Natività di Castello e Fra Diamante. Non manca poi colui che moltissimo beneficiò della lezione di Fra Filippo: Sandro Botticelli, col quale però si entrerà presto in un «altro» Rinascimento.
In questo gioco di fuori e dentro i confini si pone infine un singolare cortocircuito che riguarda la città di Prato, la sua reliquia e la sua attività tessile. La Sacra cintola, da cui tutta questa vicenda artistica prende le mosse, era infatti un brandello di stoffa: ciò che avrebbe cinto la veste della Vergine poi assunta in cielo. Ebbene, quella piccola striscia verdina (87 centimetri di lana intessuta con pochi fili d’oro) era diventata il simbolo di una città che nei secoli a venire avrebbe retto economia e immagine pubblica proprio sulle stoffe («le pezze», come si dice a Prato). Quel successo avrebbe poi cambiato di segno nella recente deriva globalizzata: nella «città invasa dai cinesi» e abbandonata dal benessere, ben testimoniata da Edoardo Nesi nel romanzo Storie della mia gente.
Il senso della mostra sta anche nel cercare di rimediare a quella deriva, a quell’ultimo nefasto circolo vizioso; nella speranza che quella capitale dell’arte rinascimentale possa oggi risorgere nella bellezza, stampandosi nell’immaginario non soltanto come la patria dei capannoni marchiati dal luogo comune, bensì, riscoperta, nel suo insieme, come una delle nostre migliori città d’arte.