Australia - Cina: rivali sì, ma non troppo

Ci sono un americano, un indiano, un giapponese e un australiano… sembra una barzelletta, ma rende bene la riunione che si è tenuta il 21 settembre a Wilmington, nello Stato del Delaware, a casa di Joe Biden. Nativo dell’altrimenti anonima cittadina, il presidente Usa ha aperto le porte della sua villa in stile georgiano ai primi ministri Narendra Modi, Fumio Kishida e Anthony Albanese. L’occasione del ritrovo è stata è la riunione annuale del Quad, il Dialogo quadrilaterale di sicurezza: un’alleanza strategica informale stipulata tra i quattro paesi con l’obiettivo di contenere l’espansionismo cinese nell’Indo-Pacifico.

La partecipazione dell’isola-continente non deve sorprendere: l’Australia è infatti un nodo fondamentale della rete con cui gli Stati Uniti vogliono imbrigliare il Dragone. Oltre al quartetto con le due potenze asiatiche, Canberra e Washington vanno di concerto anche in un trio con l’antico «patron» coloniale, il Regno Unito. Si tratta dell’Aukus, patto di sicurezza trilaterale siglato tre anni fa per irrobustire il dispiegamento occidentale di sottomarini a propulsione nucleare nel turbolento quadrante che la Cina vuole trasformare in acque di casa. La marina militare australiana si è così impegnata ad acquistare nel prossimo decennio tre unità di classe Virginia (costo base: 5,8 miliardi di dollari) dagli Usa. Nel mentre, lavora insieme ai britannici allo sviluppo di un modello congiunto che dovrebbe entrare in servizio tra una quindicina d’anni. L’iniziativa ha fatto infuriare i vertici di Pechino, che si sono opposti all’accordo sin dal primo giorno, tra campagne di propaganda per metterne in dubbio la legalità e accuse di «mentalità da Guerra Fredda» e di «nuovi rischi di proliferazione nucleare».

Oltre all’Aukus, l’Australia è inoltre parte di un’alleanza d’intelligence con Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Nuova Zelanda chiamata, significativamente, «Five Eyes», cinque occhi. È anche attiva nella collaborazione militare a livello bilaterale con altre potenze della regione: solo negli ultimi due mesi, ha stretto accordi per la difesa e tenuto esercitazioni congiunte con Indonesia, India e Giappone. Non tutti nel Paese dell’altro emisfero però condividono questo entusiasmo per la politica in tuta mimetica. La firma dell’Aukus, per la verità precedente alla formazione dell’attuale governo, è stata criticata da diverse figure di spicco della politica australiana, come gli ex primi ministri Paul Keating e Malcolm Turnbull e l’ex ministro degli Esteri Gareth Evans, e da parte dei media. A questa triplice alleanza viene imputato di aumentare le possibilità di una guerra con la Cina, di rendere più inquieti gli Stati vicini, di allineare troppo supinamente Canberra all’asse anglo-americano e soprattutto di costare alle casse statali una cifra esorbitante. Quest’ultima è una constatazione oggettiva: la stima è tra i 268 e i 368 miliardi di dollari australiani, tra i 163 e i 224 miliardi di euro. Per affrontare un simile colossale esborso, il governo di Albanese sta mettendo in campo aumenti da record del budget per la difesa, che dovrebbe raggiungere i cento miliardi di dollari australiani l’anno entro dieci anni, arrivando in previsione al 2,3 per cento del Pil.

Oltre a far quadrare i conti, le alte cariche dell’Australian Defence Force devono poi risolvere problema di risorse umane: oggi le forze armate contano 58.600 uomini e donne in divisa, mentre ne servirebbero 63 mila. I ranghi continuano anzi a impoverirsi, per due ragioni principali. La prima è che il lavoro civile nel paese non manca, e di solito paga meglio e richiede meno fatica di quello sotto le armi. La seconda è un cambiamento generazionale, che vede i giovani della Gen Z molto meno sensibili a voler combattere in nome dello Stato. Ma non ci sono solo le questioni interne. Il premier australiano deve poi confrontarsi con un fattore estero ancora più rilevante: Australia e Cina sono tanto rivali in politica quanto soci in affari. Il gigante asiatico è il primo partner commerciale dell’isola-continente, con un giro d’affari che nel solo 2023 è cresciuto del 10 per cento, superando i 300 miliardi di dollari australiani. Ne beneficiano molto le imprese, tant’è che l’export verso la Repubblica popolare è cresciuto del 18 per cento mentre il giro d’affari del terziario, tra turisti e studenti cinesi fuorisede, ha fatto un vero balzo in avanti, con una crescita di oltre il 50 per cento. Cifre rosee agli occhi di Canberra e destinate a crescere ulteriormente, dato che l’interscambio è in ripresa dopo un periodo grigio.

Nel 2020 Pechino aveva infatti emanato una serie di dazi su alcuni dei prodotti agricoli d’esportazione australiani più redditizi, dal vino all’orzo alla carne di manzo, per punire il Paese. Quest’ultimo, agli occhi di Xi, era colpevole di «lesa maestà», avendo osato chiedere l’istituzione di una commissione d’inchiesta internazionale sull’origine del Covid-19. Ne è seguito un periodo di rapporti gelidi, tra reciproche accuse di violazioni dei diritti umani e memorandum d’intesa stralciati, ma lo strappo è stato infine progressivamente ricucito e le sanzioni via via revocate. Le aziende aussie hanno così potuto ricominciare la scalata per riprendersi la vetta di alcuni segmenti del ricco mercato cinese. Oltre ai frutti della terra, tra i piatti forti dell’export aussie verso il Dragone ci sono anche quelli racchiusi nel suolo, come carbone, minerali ferrosi e litio, quest’ultimo fondamentale per realizzare le batterie dei veicoli elettrici di cui la Cina è, notoriamente, maggior produttore mondiale.

Una questione su cui però il florido rapporto economico con Pechino potrebbe rivelarsi presto un’arma a doppio taglio per l’Australia è quella taiwanese, in cui la prima è profondamente coinvolta. «I rapporti dell’Australia con Taiwan, che pur non riconosce ufficialmente, sono molto diversi da quelli degli altri attori globali: assieme agli Stati Uniti è l’unico altra nazione al mondo ad avere una funzione esistenziale per la nazione insulare» analizza Stefano Pelaggi, ricercatore di Geopolitica.info. «Canberra copre tra il 75 e l’85 per cento del fabbisogno energetico di Taipei, che non possiede fonti energetiche fossili proprie e deve soddisfare la domanda di un settore industriale estremamente avanzato, tra cui il cruciale settore dei semiconduttori. L’Australia è quindi esposta al rischio che in futuro Pechino, da cui è economicamente dipendente, possa costringerla a staccare la spina a quella che considera la provincia da riconquistare». Infine, Cina e Australia sono sempre più strettamente legate anche sotto il profilo demografico: pro capite, l’ex colonia britannica conta più cittadini d’origine cinese di qualsiasi altro Stato al mondo al di fuori dell’Asia. Quasi un milione e mezzo di persone sui suoi 26 milioni di abitanti, pari al 5,5 per cento della popolazione. Dopo inglesi e irlandesi costituiscono il più numeroso gruppo etnico per discendenza.

La terra dei canguri continua peraltro a essere una meta di emigrazione ambita per i cittadini della Repubblica popolare: gli arrivi sono tornati ai livelli pre-pandemici e riguardano tutte le fasce sociali. Dagli immigrati più benestanti, che hanno potuto godere di agevolazioni e hanno effettuato massici investimenti immobiliari nel Paese, a quelli in fuga dalla povertà e dai debiti generati dalle restrizioni durissime imposte da Pechino in epoca Covid. Di quest’ultimo gruppo facevano parte anche gli immigrati clandestini cinesi che, lo scorso aprile, sono naufragati sulla costa settentrionale australiana, a bordo di una bagnarola partita dalle coste indonesiane. Alla ricerca di aiuto, avevano inavvertitamente violato il perimetro nella base aeronautica di Truscott, nel nord del Paese, prima di essere intercettati, causando non poco imbarazzo agli alti gradi militari. Un preludio a più foschi sbarchi in futuro o solo un tragicomico episodio? Dipenderà dalla capacità del canguro australiano di continuare a saltare con un piede nell’anfibio americano e uno nella scarpa cinese.

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