Economia
May 15 2024
Onore al merito, tra le prime case automobilistiche a capire che la corsa a occhi bendati verso l’elettrico avrebbe causato gravi danni c’era stata General Motors. Già nel marzo 2023 abbandonò l’idea folle di arrivare a costruire 400.000 veicoli elettrici entro la metà di quest’anno, ammettendo che a essere insostenibile è proprio la sostenibilità fatta soltanto sulla carta. Quattro mesi dopo fu la volta di Ford, decisa a rinviare di almeno dodici mesi i suoi progetti a batteria lamentando gli effetti di un mercato afflitto dall’incertezza e dalla confusione. Fino ad allora, più che strategie ambientaliste, le decisioni politiche green erano per i costruttori occasioni d’oro, del resto mai era capitato che la politica spingesse verso un rapido (troppo) rinnovamento della quasi totalità del parco circolante, ponendo le basi per vendere tanto e soprattutto veicoli costruiti in modo da risultare più redditizi.
Fateci caso, i bilanci delle case nel periodo 2022-2024 hanno mostrato marginalità migliorate a fronte di minori produzioni in termini di numeri. Invece, oggi, costrette ad abbassare i prezzi per la concorrenza cinese e l’impossibilità degli acquirenti di essere tutti “clienti premium”, eccole fare sconti e – alcuni marchi - rincorrere le prestazioni chiave, in primis una migliore autonomia. Poi sono arrivati i tagli al personale di Tesla e le decisioni degli altri produttori di accettare, seppure a modo loro, la dura legge di Akio Toyoda, ossia della Toyota, che da sempre sostiene che sono i clienti a dover decidere quale motorizzazione faccia per loro, ma soprattutto la convinzione a non abbandonare lo sviluppo dell’endotermico, sia esso a benzina, diesel o idrogeno.
In Europa è ancora peggio: dopo quattro anni di lavaggi del cervello e catechesi elettrica, la Commissione Ue, cieca verso la realtà e le conseguenze di decisioni prese con l’ideologia, grazie a personaggi come Frans Timmermans, ha portato il Parlamento a decidere che dal 2035 non si potranno più vendere nuovi automezzi (vetture e veicoli commerciali leggeri), dotati di motori a benzina o diesel. Un sogno, anzi un delirio, durato meno di un anno, con i costruttori ben lontani dal raggiungere le previsioni, pardon gli oroscopi, fatti dai loro manager. Emblematica la frase di Tochetti Provera a Milano due mesi fa: “Qualcuno ha sbagliato i conti”. Peccato ci fosse chi lo scriveva da un lustro ma veniva apostrofato come boomer, populista e sovranista.
Così anche uno che ci credeva come Ola Källenius, amministratore delegato di Mercedes-Benz, qualche giorno fa ha annunciato ai suoi azionisti che i motori termici ci saranno anche dopo il 2030. Difficilmente ammetteranno di essere andati dietro alla politica, di aver cercato il modo di rialzare la marginalità dei prodotti a scapito del numero di maestranze e del ridotto numero di componenti che costituiscono l’auto elettrica. Arrivando a sottovalutare il peso del mercato e persino la pragmaticità dei clienti nel saper distinguere il prezzo di un’automobile dal suo valore. Ola Källenius, intervistato da Bloomberg, ha fatto dichiarazioni prudenti sostenendo che “il cambiamento potrebbe richiedere più tempo del previsto”, ma la realtà è che la casa tedesca aveva puntato sui modelli a batterie per migliorare i propri profitti. A ruota è arrivata Stellantis: seppure nel corso di quest’anno lancerà 25 modelli di vetture dei quali almeno 18 saranno elettrici, dalle parole della numero uno della finanza aziendale Natalie Knight si capisce che il gruppo non potrà che seguire le richieste dei clienti, che al momento hanno dato indicazioni inequivocabili, come il prezzo troppo alto della 500e e l’autonomia insufficiente di altri modelli.
Dimostrazione: la decisione relativamente recente di accostare alle versioni a batteria di alcuni modelli anche la variante ibrida e a benzina. Persino lanciando la termica prima dell’elettrica, come avvenuto per la Jeep Avenger. Ed anche chi ha convintamente perseguito la filosofia dell’elettrico, come Luca De Meo di Renault, in epoca recente ha rinnovato la partnership – in questo caso con i cinesi di Geely – per continuare a disporre anche di motori endotermici a basso costo. Incredibilmente, in un mondo che affrontava la pandemia e tensioni geopolitiche enormi, quindi cambiamenti epocali, sono stati investiti miliardi senza alcun atteggiamento critico né prudenza, con la politica che a fatica ha considerato l’opportunità di addolcire la transizione passando dai carburanti ecologici e sintetici. Spesso ed erroneamente il modello da seguire è stato quello nord-europeo, si veda la fine del motore termico a gasolio in casa Volvo datato 26 marzo 2024, facendo finta di non sapere che a quelle altitudini la densità di popolazione è molto bassa (per esempio la Finlandia ha gli abitanti della Lombardia in un territorio due volte l’Italia), e che il territorio non è certamente quello delle Alpi e degli Appennini pieni di piccoli borghi storici e strade piccole. In questo la storia dell’automobile dovrebbe insegnare: non è un caso se negli Usa le dimensioni delle vetture erano enormi mentre in Italia e Giappone sono nate le piccole utilitarie; e ha ragione il ministro Urso quando dice che in Italia dovremmo produrre almeno un milione di vetture, magari economiche.
Alle prossime elezioni europee bisogna ricordarlo: il problema è nato in seno a una Commissione che ha preso decisioni ideologiche e i cittadini europei meritano senza dubbio commissari più prudenti e realisti. Storpiando Giovannino Guareschi, nella cabina elettorale il portafogli ti vede, Bruxelles no.