Politica
June 22 2024
Con l’approvazione alla Camera dei Deputati nel corso della seduta-fiume dello scorso 19 giugno (il 23 gennaio era stato approvato al Senato) del disegno di legge recante disposizioni sulla “Autonomia differenziata”, cavallo di battaglia del Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, in attesa della controfirma del Presidente della Repubblica Mattarella, si è raggiunta una tappa fondamentale per attuare le disposizioni dell’ultimo comma dell’art. 116 della Costituzione, riguardante la concessione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni, che così avranno la possibilità di ottenere competenze in molte importanti materie. A scatenare il dibattito politico di queste ultime ore è la reale possibilità che su tutto il territorio nazionale vengano assicurati gli stessi standard qualitativi nella erogazione delle prestazioni ritenute “essenziali”, gli ormai ben noti Lep, riguardanti materie come sanità, istruzione e servizi sociali.
Professor Daniele, in cosa consiste l’autonomia «differenziata» o «rafforzata»?
«Si tratta di “forme e condizioni particolari di autonomia” che, secondo l’articolo 116 della Costituzione, possono essere concesse alle regioni che ne facciano richiesta. Le materie sono quelle oggetto di legislazione concorrente tra Stato e regioni, ovvero le venti materie elencate dall’articolo 117 (terzo comma) della Costituzione, tra cui istruzione, tutela della salute, ricerca scientifica e tecnologica, ordinamento sportivo, protezione civile, governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, energia, previdenza complementare e integrativa, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, casse di risparmio e casse rurali».
C’è altro, se non erriamo…
«Altre tre materie elencate nel secondo comma della stessa norma, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ovvero l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali»
L’autonomia differenziata è stata introdotta con la riforma della Costituzione del 2001. Perché si scelse di modificare l’art. 116 introducendo questa possibilità per le Regioni?
«Ricordiamo che negli anni Novanta, in larga parte dell’opinione pubblica settentrionale, si era diffusa l’idea che lo Stato centrale drenasse risorse dal Nord produttivo per destinarle al Sud improduttivo e sprecone. Un’idea su cui faceva leva la Lega Nord con il suo progetto di secessione della Padania, e per i partiti di centrosinistra era necessario, ai fini del consenso, contrastare proprio la Lega. Si avviarono, così, forme di decentramento con i “decreti Bassanini”; poi, nel 1999, si diede avvio al progetto D’Alema-Amato di revisione del Titolo V della Costituzione che riguarda le Regioni e gli enti locali. La riforma costituzionale venne approvata nel 2001 dal Parlamento con i soli voti della maggioranza di centrosinistra nell’ultimo giorno della legislatura. E’ stata quella riforma che permise alle Regioni la possibilità di ottenere maggiore autonomia».
Negli ultimi anni non sono mancati ulteriori passaggi verso l’autonomia differenziata…
«Nel 2017 in Lombardia e Veneto si svolsero referendum consultivi finalizzati all’attribuzione di forme di autonomia alle due regioni: l’anno successivo, il Governo Gentiloni – anch’esso di centrosinistra – raggiunse intese preliminari con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto per l’autonomia in alcune materie, tra cui l’ambiente, la sanità e l’istruzione. Non tutti sanno che, negli anni scorsi, anche le altre regioni a statuto ordinario (con l’eccezione di Abruzzo e Molise) hanno approvato atti preliminari alla richiesta di maggiore autonomia. E si arriva, infine, all’attuale legge Calderoli».
E cosa prevede, allora?
«La legge disciplina le procedure per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di forme e condizioni particolari di autonomia previste dall’articolo 116 della Costituzione: in pratica, le competenze possono essere devolute sulla base di un’intesa tra la Regione interessata e il governo. L’intesa, raggiunta dopo un’articolata procedura che coinvolge la Conferenza unificata (i rappresentanti delle autonomie locali) e le competenti Commissioni parlamentari con atti d’indirizzo, viene approvata dal Consiglio dei ministri e allegata a un apposito disegno di legge. Questo, a sua volta, viene trasmesso alle Camere che possono approvarlo a maggioranza assoluta o respingerlo senza poter, però, modificare i contenuti dell’intesa. La legge Calderoli prevede, inoltre, disposizioni finanziarie e riguardanti i Lep».
Proprio i Lep sono la questione più dibattuta e problematica, perché dovrebbero, in pratica, servire a evitare disparità nei servizi. Di cosa si tratta?
«Si tratta dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che, secondo la Costituzione, bisogna assicurare ai cittadini in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale. La legge Calderoli prevede che i Lep vengano definiti in quattordici materie, tra cui sanità, istruzione, tutela dell’ambiente e dei beni culturali, tutela e sicurezza del lavoro, grandi infrastrutture. Il trasferimento delle funzioni in tali materie alle Regioni, può avvenire soltanto dopo la determinazione dei Lep stessi e dei relativi costi e fabbisogni necessari per garantirli. Sebbene ciò sembri offrire una garanzia di omogeneità dei servizi pubblici su tutto il territorio nazionale, almeno a un livello di base, i Lep non eliminano il rischio di differenze di fatto».
Essendo basati su indicatori misurabili (esempio, numero di utenti o quantità di un dato servizio), sono sempre affidabili?
«Intanto, al momento, i Lep sono stati definiti solo per la sanità e per i servizi socioassistenziali. Per le altre materie vanno definiti. È difficile dire quanto i Lep siano in grado di assicurare la qualità delle prestazioni erogate, stante l’impossibilità di misurare ogni aspetto di un servizio. Del resto, anche nelle materie in cui i Lep già esistono, cioè sanità e servizi sociali, i livelli delle prestazioni sono molto diversi tra Nord e Sud, per cui sarebbe necessario colmare preliminarmente i divari. Ciò richiederebbe ingenti risorse (attualmente non disponibili) e molto tempo. Se si concedesse l’autonomia alle regioni più avanzate prima di colmare le differenze nei Lep, si partirebbe con grandi squilibri. Sarebbe come una corsa in cui alcuni corridori partono con notevole vantaggio rispetto ad altri».
Lei è uno studioso dello sviluppo economico: il rischio che il divario tra Nord e Sud aumenti è forte. Quali sono le ragioni?
«Per finanziare le competenze che verranno devolute loro, le regioni tratterranno una quota (da stabilire) dei tributi riscossi nel proprio territorio, analogamente alle regioni a statuto speciale. Ciò, a norma di legge, non può pregiudicare le risorse da destinare alle altre regioni e non può determinare oneri per la finanza pubblica. Questo è un aspetto molto importante ma con delle incognite».
Incognite?
«È molto difficile conciliare obiettivi così contrastanti, cioè far sì che le regioni più ricche trattengano quote rilevanti del gettito fiscale mantenendo invariati i saldi finanziari complessivi. Si consideri, per esempio, che l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Veneto rappresentano ben il 40 per cento del Pil italiano. È necessario che con l’autonomia non diminuiscano le risorse che lo Stato deve destinare alle regioni meno sviluppate, affinché queste possano finanziare i servizi fondamentali, e per effettuare gli interventi di riequilibrio territoriale riguardanti le infrastrutture».
Professore, le preoccupazioni al Sud non sono da poco!
«Condivisibili, ovviamente, perché c’è il problema delle risorse, ma anche perché con l’aumento delle competenze in capo alle regioni, si avranno differenze nei modelli organizzativi e gestionali che si tradurranno inevitabilmente in livelli diversi dei servizi. Purtroppo, in molti ambiti, le regioni meridionali non hanno lo stesso livello di efficienza gestionale di quelle settentrionali. Tali differenze, che potrebbero accompagnarsi anche con quelle nelle retribuzioni del personale addetto ai servizi stessi, come l’istruzione o la sanità, accentueranno le già consistenti migrazioni dal Sud verso il Nord, inclusa l’emigrazione sanitaria. In sostanza, il rischio concreto è che con l’autonomia differenziata aumentino i divari Nord-Sud nei servizi pubblici e, dunque, anche quelli economici».
Ci sono fondate ragioni economiche per l’attribuzione di forme di autonomia differenziata alle Regioni?
«No, almeno non per tutte le materie. I beni e servizi pubblici che più si prestano al decentramento sono quelli locali, che producono benefici territorialmente delimitati (esempi: una diga, l’illuminazione pubblica, la viabilità locale). Non c’è alcuna ragione teorica per aumentare il decentramento nella sanità, nell’istruzione, nelle grandi reti di trasporto o nella produzione e distribuzione nazionale dell’energia. Anzi, ci sono buone ragioni per sostenere che tali servizi dovrebbero essere gestiti dallo Stato».
Si sostiene che con questa riforma le regioni del Sud diventeranno più efficienti nella gestione delle risorse e nell’erogazione dei servizi.
«Questo è un argomento spesso ripetuto, ma poco convincente. Non credo che l’autonomia possa spingere, di per sé, le amministrazioni meridionali verso una maggiore efficienza o migliorare la qualità dei servizi pubblici. Del resto, è proprio nel settore in cui è maggiore la competenza regionale, ovvero la sanità, che ci sono i maggiori divari tra Nord e Sud. Se, poi, ci si riferisce ai politici non è affatto scontato che la concessione di maggiore autonomia contribuisca a selezionare politici più capaci. I candidati alle elezioni politiche e regionali sono sostanzialmente indicati dalle segreterie nazionali dei partiti, per cui la selezione andrebbe fatta a monte».
A proposito: si sostiene che con l’autonomia differenziata i cittadini potranno valutare meglio l’operato dei politici che li rappresentano, non rieleggendo quelli che si dimostrano incapaci.
«Ma ciò, evidentemente, è possibile anche senza autonomia differenziata! Del resto, è quanto già accade. I cittadini votano e, spesso, non confermano le amministrazioni uscenti, ma ciò non assicura affatto che i nuovi eletti siano più capaci di quelli che li hanno preceduti Non si capisce come l’autonomia possa rendere efficace tale “meccanismo sanzionatorio” che finora, pur a fronte di macroscopiche carenze nei servizi, non sembra aver funzionato».
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Vittorio Daniele, classe 1971, è ordinario di Politica economica all’Università Magna Graecia di Catanzaro, dove insegna anche Economia dello Sviluppo e presiede il Corso di laurea in Economia aziendale e management. Oltre a numerosi articoli scientifici pubblicati su riviste nazionali ed internazionali, spiccano i libri La crescita delle nazioni. Fatti e teorie (Rubbettino, 2008), Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (con Paolo Malanima, Rubbettino 2011) e, soprattutto, Il paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia, (Rubbettino, 2019) in cui esamina le cause del ritardo meridionale, attraverso un’analisi ricca di dati che riservano sorprese e smentiscono storici luoghi comuni. Ha appena ultimato un libro sull’autonomia differenziata, di prossima pubblicazione con Rubbettino.