Economia
September 13 2019
La categoria delle autoscuole (o scuola guida) si ritrova invischiata in quello che rischia di essere un brutto pasticcio fiscale legato a tasse nuove ed arretrate da pagare: fino ad oggi, anche sulla base di reiterate circolari dell’Agenzia delle Entrate, infatti, era pacifico che le attività di formazione delle autoscuole non fosse soggetta ad IVA. E questo per molti anni. Sennonché, la Corte di Giustizia UE, con la sentenza 14.3.2019 in causa C-449/17 ha affermato che la formazione per il rilascio di patenti B e C1 non rientra nella formazione scolastica e universitaria, esente da IVA. L’Agenzia delle Entrate italiana, quindi, con la risoluzione n. 79 del 2 settembre 2019, ha ritenuto direttamente applicabile in Italia il principio stabilito dalla Corte. Di conseguenza ritiene che gli operatori di questo settore dovreanno versare l’Iva non solo per il futuro, ma anche su tutto quanto hanno fatturato dal 2014 ad oggi.
Tutto questo, rischia di danneggiare un settore che conta migliaia di operatori e mette a rischio preziosi posti di lavoro: secondo una valutazione approssimativa di ANTARES, una delle principali associazioni di categoria, la somma che il fisco si accinge a recuperare si avvicina a circa un miliardo di euro.
Il punto però è che non è affatto detto che le cose stiano come sostiene il fisco italiano perché le statuizioni della sentenza della Corte europea potrebbero non essere applicabili sic et simpliciter al caso italiano.
Ma procediamo con ordine.
Tanto la direttiva 2006/112/CE sull’IVA quanto il DPR 633/72 prevedono che le prestazioni di formazione scolastica ed universitaria non sono soggette ad IVA.
Inoltre entrambe le normative prevedono che non sono soggette ad IVA le prestazioni relative a “formazione o la riqualificazione professionale” erogate da “organismi riconosciuti dallo Stato membro interessato come aventi finalità simili” (art. 132 Par. 1 lett. i) ripreso in modo quasi identico dall’art. 10 comma 1 n. 20 DPR 633/72)
In base a queste definizioni il fisco italiano ha costantemente ritenuto che le attività delle autoscuole, anche sul rilascio delle patenti B e C1 fossero esenti da IVA, e lo ha scritto e ripetuto in risoluzioni che si sono susseguite nel tempo: la n. 83/E-III-7-65258 del 1998 e n. 134/E del 2005.
Queste indicazioni, univoche e reiterate, avallate dal fisco per molti anni senza segni di ripensamento, determinano quello che in gergo si definisce un legittimo affidamento da parte del contribuente. Vedremo oltre che tipo di conseguenze questo comporta.
Un paio di ultimi tasselli: in Italia l’attività delle autoscuole è soggetta ad autorizzazioni e a penetranti, rigorosi controlli delle province e degli uffici della Motorizzazione. Una cosa che non necessariamente accade e comunque, non con le medesime modalità, in altri paesi dell’UE.
Inoltre l’art. 123 del Codice definisce testualmente le autoscuole “scuole per l'educazione stradale, l'istruzione e la formazione dei conducenti” attribuendo loro un esplicito connotato scolastico – educativo.
A questo si aggiunge un elemento di estrema rilevanza: ai sensi dell’art. 230 del Codice della Strada, l’educazione stradale, che comprende molte nozioni e materie incluse nella formazione necessaria per il conseguimento delle patenti di guida B e C1, è materia di insegnamento scolastico per espressa previsione di legge.
Ora, la Corte di Giustizia, si è occupata della questione nell’ambito di una controversia che non investiva lo Stato italiano (e quindi le norme fiscali e quelle di settore italiane) ma l’Amministrazione finanziaria tedesca.
La Corte, quindi, ha esaminato la questione tenendo conto delle specificità del mercato e del sistema normativo tedesco. Un sistema in cui l’attività delle scuole guida non ha gli stessi connotati pubblicistici previsti in Italia, dove all’educazione stradale si attribuisce la dignità di formazione scolastica.
La sentenza, quindi, si è limitata a considerare il perimetro delle attività di formazione sulle patenti B e C1 così come astrattamente indicati nella direttiva.
Tuttavia non ha considerato questioni inerenti lo status riconosciuto alle scuole guida nei vari paesi europei; né che in certa misura le materie insegnate nei corsi di scuola guida possano rientrare nei programmi scolastici pubblici e che nell’ordinamento di alcuni stati membri (com’è per l’Italia) alle autoscuole si conferisce una funzione e un connotato scolastico - educativo.
E neppure ha esaminato l’intera questione sotto il profilo della formazione e riqualificazione professionale.
Quando a sua volta l’Agenzia delle Entrate, a seguito l’interpello di un contribuente, è stata chiamata a chiarire quali effetti concreti sortisse la decisione della Corte europea, rispetto alla situazione di consolidata esenzione in Italia, si è limitata a riscontrare che quando un principio viene affermato dalla Corte è efficace nei confronti di tutti gli stati membri e quindi anche dell’Italia. Da qui fa discendere la presunta necessità del recupero dell’IVA mai addebitata fino ad oggi, andando a ritroso fino all’anno 2014, anno per il quale entro il 31 dicembre 2019 può essere emesso un avviso di accertamento da parte del fisco.
Quali sono i punti critici di questa posizione?
Il primo è che, come si è detto, le autoscuole sono sottoposte ad autorizzazioni e controlli pubblici, il che permette di qualificarle come “organismi riconosciuti dallo Stato membro” per la formazione professionale.
Dunque, tutte le attività di formazione delle autoscuole italiane, se sono funzionali alla formazione e alla riqualificazione professionale ricadono nella casistica di esenzione prevista dall’art. 132 par. 1 lett. i) e della direttiva, e dall’art. 10 co. 1 n. 20 DPR 633/72.
E non c’è dubbio che le autoscuole in Italia siano operatori per legge riconosciuti come formatori per la professione.
Per di più, proprio la patente C1 in Italia può essere (e normalmente viene) rilasciata per esigenze di natura squisitamente professionale, poiché abilita alla guida di mezzi pesanti che possono essere legittimamente impiegati per il trasporto di merci in proprio. In altre parole, la patente C1 la prende chi, ad esempio, lavorando per un’impresa edile è impiegato a guidare i camion per il trasporto di materiali o attrezzature. E questo è puntualmente previsto sia a livello comunitario, nell’ambito della direttiva 2006/126/CE, che nella normativa italiana di recepimento (il D.Lgs. 59/2011). La formazione per questo tipo di patenti, dunque, ha un connotato di formazione per fini professionali ed è erogata da soggetti (le autoscuole) che sono legalmente riconosciute dallo stato membro (in questo caso l’Italia).
Secondo punto di caduta: in Italia l’educazione stradale è materia di insegnamento scolastico, per espressa previsione di legge e, come abbiamo visto, le autoscuole vengono definite dalla legge come “scuole per l'educazione stradale”.
Senza contare il fatto che le nozioni di educazione stradale ricadono all’interno dei programmi di formazione per il conseguimento delle patenti B e C1, perché riguardano la conoscenza delle regole di circolazione e sicurezza stradale che sono alla base del programma di apprendimento di qualunque patente.
Tutto questo, perciò, avrebbe richiesto almeno un approfondimento specifico, per comprendere se, per come è disciplinato in Italia lo svolgimento delle attività di autoscuola e comunque rispetto alla valenza scolastica attribuita dal legislatore italiano all’educazione e alla sicurezza stradale, attribuisca al rilascio delle patenti B e C1 in Italia un carattere diverso ed aggiuntivo rispetto a quello che in altri paesi (come la Germania) può essere riconosciuto.
Non è finita.
Cosa succede con il legittimo affidamento? È la stessa Agenzia delle Entrate che riconosce che a seguito delle sue reiterate risoluzioni tale affidamento si sia ingenerato, tanto che essa stessa, sulla base dell’art. 10 dello Statuto del contribuente (L. 212/2000), esclude che possano essere addebitati sanzioni o interessi.
Tuttavia il problema va posto anche rispetto al recupero del tributo. Infatti, è vero che lo Statuto tratta solo di sanzioni ed interessi, ma è altrettanto vero che quello del legittimo affidamento è un principio generale, che assume rilievo ogni qualvolta vi siano dei vantaggi economici che la pubblica Amministrazione erroneamente attribuisce o riconosce al cittadino il quale ne fruisce del tutto incolpevolmente, sulla base di atti e condotte della p.A.
Dottrina e giurisprudenza hanno discusso a lungo sul tema e l’opinione prevalente è nel senso che tale principio opera anche con riferimento al recupero dei tributi, al di là del fatto che la norma dello Statuto del contribuente menzioni esplicitamente solo interessi moratori e sanzioni.
Ebbene, posto che l’IVA è un c.d. tributo armonizzato (cioè, soggetto a disciplina europea), è bene chiarire che proprio la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE afferma con forza persino maggiore rispetto alla giurisprudenza italiana la rilevanza di questo principio.
Ad esempio, il legittimo affidamento è stato identificato come una situazione di vantaggio assicurata ad un privato da uno specifico e concreto atto o comportamento dell’autorità amministrativa, che non può essere in seguito rimossa, salvo che ciò non sia strettamente necessario per la tutela dell’interesse pubblico e fermo restando, in ogni caso, l’indennizzo della posizione acquisita (Corte giust., 3 maggio 1978, C 112/77, Topfer/Commissione). Indirizzo confermato da numerose successive pronunzie (Corte giust., 19 maggio 1983, C 289/81; 19 settembre 2000, C 177/99, 181/99, Ampafrance and Sanofi; 18 gennaio 2001, C 83/99, Commission/Spain e altre ancora).
Insomma, non è affatto scontato che il fisco italiano abbia titolo a recuperare tutto quello che per un periodo ampio e prolungato, ha dato specifiche indicazioni ai contribuenti di non pagare.
Anche qui, dunque, la risoluzione 79 del 2.9.2019 appare deficitaria in termini di adeguato approfondimento giuridico. Il quadro, dunque, è estremamente complesso.
La questione, dunque, richiederebbe un intervento legislativo che quanto meno ponga rimedio al pregresso. D’altro canto questo è esattamente quello che è stato fatto in passato in occasione di altra vicenda, molto simile sotto molti punti di vista: quella delle prestazioni mediche non curative (come lo sono certi interventi di chirurgia estetica) che la Corte europea con le sentenze 20/11/03, in cause C-307/01 e C-212/01 ha ritenuto soggette ad IVA.
In quel caso il legislatore nazionale è prontamente intervenuto con una norma di legge mediante la quale “sanava” il pregresso, stabilendo che l’assoggettamento ad IVA avrebbe avuto decorrenza dall’anno successivo.
Certo, le autoscuole non possono vantare le stesse influenze della lobby dei medici.
Ma nel caso, anche un intervento di questo tipo lascerebbe comunque fuori la questione di fondo: quanto della sentenza europea può essere effettivamente trasposto nell’ordinamento italiano?
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