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September 06 2015
Sono due le foto di Aylan e in nessuna delle due ha un volto (né un nome, per la verità, finché non lo scopro da Internet). Nella prima il bambino sta bocconi sulla battigia, inerte. Sembra addormentato a faccia in giù. Nella seconda spuntano solo i polpacci esili, sporchi di sabbia bagnata, e quelle scarpe piccole, è tutto così piccolo tra le grandi braccia dell’uomo che lo ha raccolto sulla spiaggia di Bodrum (Bodrum, legata per me a ricordi belli di caicchi e mare color smeraldo).
L’immagine è quella di un corpicino che non respira più, non si muove, esposto all’interminabile carezza della risacca. Quell’immagine mi colpisce, ma non voglio che i miei sentimenti vadano alla deriva. Non voglio perdere la capacità di ragionare. Eppure, vorrei anche piangere, vorrei perdermi nell’abisso che si è aperto. Vorrei dare un volto e un nome a quel corpo che potrebbe essere quello delle mie figlie quand’erano piccole come lui.
Certi commentatori ragionevolmente condanneranno la spettacolarizzazione, che però nasce da questa empatia, da questa personalizzazione, da questo coinvolgimento per cui fingiamo che la tragedia sia nostra, sia mia, per smarcarci dalla morte (che ci tocca tutti). Collego quell’assenza di volto ad altre assenze che da giornalista mi hanno commosso. Come a Sarno travolta dal fango il padre che abbraccia le bare bianche dei figli e la bara scura della moglie. Unico sopravvissuto proprio come Abdullah Kurdi, curdo siriano di Kobane violentata dall’Isis, padre di Aylan, che nel ribaltamento del gommone ha perso la moglie ed entrambi i figli, Aylan di 3, Galip di 5 anni.
È un paradosso ma voglio scavarci dentro: vedere le foto dei due fratellini che giocano insieme toglie forza all’immedesimazione. Io cerco un nome e una storia da collegare a quel corpo. Ma voglio anche non guardare in faccia Aylan, non sapere come si chiami. Non voglio perdere l’empatia. Non voglio perdere la capacità di vedere nell’assenza di volto e di nome, ma nella presenza, di quel corpicino gettato come un detrito dal mare sulla spiaggia di Bodrum, la forza evocativa di una tragedia epocale e di massa. Quello, per me, non è Aylan o Galip o uno dei tantissimi bambini affogati nel Mediterraneo. È Aylan, è suo fratello Galip, è tutti i bambini che si sono affidati ai genitori, che si sono fatti prendere per mano e si sono lasciati portare e sono morti.
Le ragioni a favore della pubblicazione di quell’immagine (la più cruda, Aylan sulla battigia a faccia in giù) si riducono di fatto a una: aprire gli occhi di chi non sa commuoversi altrimenti, per l’orrore delle morti nel Mediterraneo. Le ragioni contrarie alla pubblicazione sono più variegate, vanno dal rispetto della morte alla necessità di non trasformare la morte di un bambino in oggetto di consumo mediatico e voyerismo sentimentale.
Eppure, io vorrei correre questo rischio. Se io dirigessi un giornale, vorrei mettere tutti nella condizione di vedere la realtà. Certo, non sono così ingenuo da pensare che quella sia la realtà. Quella è solo un’immagine. Ma quell’immagine (che a furia di vederla e rivederla può perfino generare un effetto inaspettato e contrario: l’assuefazione) non può essere censurata. Nessuno ha il diritto di nasconderla, sostituendosi ad altri nel decidere se vederla o no. Io voglio vedere quel corpicino sulla battigia, e rivederlo, e inorridire al pensiero che potrei abituarmi, cioè non commuovermi più.
Ma quello che non voglio è che mi sia impedito di vedere. Quello che non voglio è chiudere gli occhi.